giovedì 23 settembre 2010

GABRIELE DE STEFANO

Fra gli artisti, esattamente come fra gli altri esseri umani, vi è una categoria d’individui assai singolare. Sono quelli che, un poco come nel mondo dell’ ippica da competizione, quella che ha come scopo l’eleganza e la fermezza del salto, sono spinti da una forza interna che li porta costantemente a buttare il cuore di là dall’ ostacolo. E’ questa la pratica che Gabriele de Stefano ha usato come motore, forse inconsapevole, della sua vita e ovviamente del suo modo di fare arte che della sua vita è parte integrante, connessa, immessa. Trattasi di calabrese autentico, con quella naturale dotazione di caratteri primordiali e sofisticatamente atavici, diventato romano prima di trovare la sua vera identità che sta nelle parti calde del continente americano del sud. Un fisicaccio che ha insegnato educazione fisica. Passò infatti i primi suoi anni romani professando in uno dei più noti licei classici romani e tentando di far capire agli amanti del greco e del latino quanto la cultura del corpo, e quindi del piacere, fosse necessaria non solo ad una mens sana ma ad una testa in grado di capire e di sentire i meccanismi fenomenali della cultura antica. Da sempre dipingeva, creava forme e immagini. La pittura divenne la vera sua attività. Il fare arte un modo intelligente di sopravvivere con gaiezza quando vi era ancora un mondo internazionale che consentiva le scorribande ed a New York un artista senza sostegni poteva sperare di esporre e di vendere. Sorrideva il successo. Non era però ancora stata scoperta la strada dell’ epos che ogni creatore reputa di dovere trovare. Alcuni quadri potenti e grigi raccontano quegli anni, quella dispersione che tutti vivevano fra le lusinghe d’ una vita agitata e le ansie degli anni di piombo. Sono opere oggi cariche di testimonianza; sono pure documenti che lasciano già percepire il percorso che stava per avvenire.
Tutti finiscono con l’andare nelle Americhe Latine, tutti quelli della generazione che ha sentito e letto le notizie d’una America diversa da quella wasp, che hanno seguito l’avventura politica di Cuba dopo la depressione di quella di Budapest oppure che hanno vissuto letterariamente l’ avventura esistenziale di Aureliano Buendia. Un calabrese non può approdare nella grande mela della East Coast senza sentirsi attratto da scenari più tropicali. Destefano finì in Brasile. E fu tentato subito dalle profondità amazzoniche, da una natura diversa, da un uomo e da una donna diversi, da un modo diverso di vivere la vita, il cibo, l’aria, l’acqua, la natura, il sesso. Un fisicaccio. Pronto in un istante a diventare indio, il calabrese. Pronto ad assumerne le abitudini e l’ immaginario. Pronto ad accasarsi. Pronto a ritrovarsi un suocero in odore di voodoo. L’aria secca della roccia calabrese fu fecondata dalle umidità tropicalGabriele De Stefano nasce a Reggio Calabria il 7 novembre del 1936. Da giovanissimo ottiene grandi riconoscimenti: espone con Andy Warhol al Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 1974 e cura scene e costumi per molti spettacoli di Gassman, tra cui “Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini. Alla fine degli anni settanta si trasferisce a New York e Los Angeles e di lì in Brasile. Qui inizia il suo percorso interiore tra le comunità degli Indios Yanomami, tra i bacini dell’Orinoco e del Rio Negro, nel Nordeste, tra il Brasile e il Venezuela.

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