giovedì 31 marzo 2011

NORTH KOREA - INSIDE THE UTOPIA

Un reportage eccezionale dal cuore del regno impenetrabile di Kim Jong Il, il dittatore assoluto dello Stato più totalitario del pianeta, completamente isolato dal resto del mondo, ancorato ad un rigido ideale pseudo-socialista e fondato sul più maniacale culto della personalità che la mente umana ha mai potuto creare. Nei deserti delle città immense, nei boschi, negli antichi borghi, la gente cerca di sopravvivere alle estati torride, ai inverni gelidi, alla fame e alle carestie, non senza trascurare il loro dovere di buoni cittadini: onorare il sacro nome del loro Grande Leader ogni giorno dell'anno.

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Pyongyang, colossal monument to Kim Il Sung on the Mansudae hill

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Pyongyang, newlywed couples have come to pay homage to Kim Il Sung’s monument

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Mount Myohyang, entrance to the museum of gifts received by Kim Il Sung

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The traffic in Kaesong during rush hour

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Mount Myohyang, a corridor in the museum of gifts received by Kim II Sung

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Pyongyang, parade rehearsals in Kim Il Sung square

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Pyongyang, a girl during the parade rehearsals in honour of the deceased Kim Il Sung

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Soldiers visiting the Buddhist temple of Boyhon (11th century)

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Pyongyang, a man at the foot of the Juche Idea obelisk

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Forced labour workers in the paddy fields near Kaesong

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Pyongyang, the unfinished mass of the hotel Ryugyong

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Panmunjom. On the border between the two Koreas, southern and northern soldiers confront each other

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The deserted Pyongyang-Nampo motorway

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Pyongyang, the Grand People’s Study House

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Pyongyang, parade rehearsals in Kim Il Sung square

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Pyongyang, newlywed couples have come to pay homage to Kim Il Sung’s monument

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Pyongyang, in an underground station

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Pyongyang, an elderly woman pays homage to the monument of Kim Il Sung

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Pyongyang, Monument to the Workers’ Party Foundation

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Wonsan beach

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Pyongyang, parade rehearsals at the May Day Stadium

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Pyongyang, the Juche Idea obelisk

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Monument at the entrance of the Nampo dam

All images © Sergio Ramazzotti

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mercoledì 30 marzo 2011

UN ARTISTA CINESE CREA IL PIÙ GRANDE DIPINTO IN 3D

“Lions Gate Gorge ", una grafica 3D gigante creata dall'artista Qi Xinghua è stata riconosciuta come il più grande disegno in 3D del mondo, dal Guinness Book of Records. La pittura fantastica, che si trova di fronte a un centro commerciale a Guangzhou, in Cina, ha le impressionanti misure di 23 metri di larghezza e 32 metri di lunghezza, a terra, mentre la parete di fondo è di 6 metri di altezza. Si estende su una superficie di 892 metri quadrati e sembra così realistica che la gente dice di soffrire realmente di vertigini quando si cammina sulle corde dipinte che attraversano la gola colorata. Qi Xinghua, primo pittore 3D della Cina, ha detto che ha impiegato un intero mese di lavoro scrupoloso per completare l'illusione gigante, ma guardando il risultato finale direi che non se ne pentirà mai.

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Sources: Daily Mail, Chinanews

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INTENDED CONSEQUENCES

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Jonathan Torgovnik. Photographer. Isreal.
In 1994, in the East African nation of Rwanda, one million ethnic Tutsi people were slaughtered, in a genocide committed by their Hutu countrymen. But the scars left by these murderous militiamen go well beyond the numbers of the dead: they live on, in the lives of the women they held captive, raped - and left pregnant.

In Rwanda, in 1994, Hutu militia committed a bloody genocide, murdering one million Tutsis. Many of the Tutsi women were spared, only to be held captive and repeatedly raped. Many became pregnant. Intended Consequences tells their stories. See the project at http://mediastorm.com/publication/intended-consequences


Intended Consequences tells the stories of some of these women, victims of the sexual violence used as a weapon of war against them. Some 20,000 children were born as a result. Photojournalist Jonathan Torgovnik photographed and interviewed 30 women and their families, and has produced a piece of incredible complexity: how does a woman care for her child when it's the son or daughter of the man who raped her?

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Photography & Interviews: Jonathan Torgovnik
Producer: Chad A. Stevens
Executive Producer: Brian Storm
On-Location Video: Jules Shell
Studio Video: Bob Sacha, Chad A. Stevens
Original Music: Pamela Chen, Sherman Jia
Graphics: Tim Klimowicz
Translation: Geoffrey Ngiruwonsanga
Narration: Rosette Adera, Yvette Rugasaguhunga, Hope Kantete
Translation: Portuguese: Leandro Badalotti, Israel Krindges
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martedì 29 marzo 2011

WALKER, VIOLENZA IN BIANCO E NERO

A Negress of Noteworthy Talent

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È così che Kara Walker parla di se stessa, nella sua incarnazione artistica: usando una parola indigesta, scorretta, che nessun altro se non lei potrebbe usare. Questa artista americana ormai universalmente riconosciuta – e ha solo 41 anni – si muove infatti sul confine tra ciò che bisogna dire e quel che non si osa, a suo modo incerta tra la tentazione di lasciarsi identificare come icona antirazzista e la necessità di mettersi in discussione.

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Gone, An Historical Account of a Civil War...* (1994)

Kara Walker è afroamericana e si occupa di razzismo; eppure la comunità black americana ha avuto qualcosa da ridire sul fatto che la sua arte sia stata apprezzata in primo luogo dai bianchi. È femmina e lavora sulle questioni di genere, di emancipazione, sui rapporti di potere tra uomo e donna, ma non può non ricordare che «per lungo tempo il femminismo ha ignorato le donne nere.

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Quando è cominciata la battaglia per il diritto al lavoro – non quella attuale per la parificazione dei compensi, proprio la prima lotta perché alle donne fosse permesso di lavorare fuori casa – le donne di colore in realtà stavano lavorando già da secoli: lavoravano per le donne bianche».

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Cut (1998)

Nell'arte in bianco e nero della Walker, il torto e la ragione si cercano nelle sfumature. Ci sono solo antieroi e antieroine, e la comprensione della verità filtra attraverso le ombre.

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Ora le sue grandi silhouette di carta ritagliata a mano che riproducono scene del l'America prebellica (dove per guerra si intende la Guerra Civile americana) sono in mostra alla Fondazione Merz di Torino, mentre una serie intensa di progetti collaterali, convegni, workshop e proiezioni, presenta per la prima volta al grande pubblico italiano la sua complessa personalità artistica.

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Se i riferimenti storici e letterari sono prevalentemente sette e ottocenteschi, la sua tecnica di elezione è a sua volta antimoderna: grandi sagome vengono ritagliate a mano lungo le linee di un disegno tracciato su carta nera, e poi applicate alla parete. Il risultato è un lungo "ciclorama" di profili neri su bianco (o bianchi su nero), in cui la piacevolezza del disegno cela per un attimo allo sguardo la crudezza di ciò che accade.

clip_image008Camptown Ladies by Kara Walker

Schiavitù, stupri, sodomie, maternità sanguinolente, immagini di tortura, degradazione o sottomissione, sfruttamento del lavoro e del corpo dei bambini, su sfondi agresti che nascondono in realtà i paesaggi delle piantagioni di cotone.

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Tutta l'evoluzione del lavoro della Walker, che in questo progetto curato da Olga Gambari si articola in disegni, incisioni, installazioni, video, viene da qui, ma insiste per andare oltre: «La "blackness" e la "womanness" sono per me due direzioni, non due argomenti», spiega l'artista, che si ferma a lungo in Italia per partecipare personalmente al ciclo di eventi.

clip_image011Darkytown Rebellion* (2001)

La Walker tiene moltissimo, forse troppo, a non essere classificata come artista afroamericana, o come artista donna, e sembra quasi sofferente nel suo tentativo di sottrarsi agli stessi stereotipi che esplora: «Io non parlo per tutte le donne, ma per me, e anche quello a fatica. L'unica chiave è la mia psiche, non c'è una chiave femminista», insiste. La sua fatica è quella di chi si ritrova suo malgrado in bilico tra la voce autobiografica e quella collettiva. Uno dei lavori più interessanti e significativi della mostra è infatti un'installazione di figurine in acciaio ritagliato al laser che sembra staccare dal muro i suoi disegni:

clip_image013Insurrection! Our Tools Were Rudimentary But We Pressed On (2002)

«Le sculture ritagliate sono personaggi bloccati tra le due e le tre dimensioni: non sono più schiacciate dal muro ma ancora non sono tridimensionali, vogliono uscire e non riescono»; mentre poco più in là c'è una parete di silhouette bianche su fondo nero, in origine pensate come storyboard per un libro o per un video, ispirate a Tamango, un film del 1959 che raccontava il viaggio di una nave di schiavi dall'Africa verso Cuba: il capitano sceglie una delle schiave come sua amante e a bordo scoppia una ribellione. «Mi sembrava che la nave fosse la metafora perfetta della vita: c'è una storia di passione, c'è la violenza, c'è l'ingenuità; nei miei disegni si vedono schiavi che si imbarcano ignari del loro destino: così anche oggi c'è chi non vede né la propria schiavitù né la sofferenza degli altri», spiega Kara.

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In tutti i lavori compare l'alter ego bidimensionale della Walker, la «Negra Emancipata» che dà titolo alla mostra e a diverse opere, e che è insieme un simbolo di riscatto e di inconsapevolezza: la Walker si muove in questo spazio sottratto, tra la violenza dell'oppressore e la soggiacenza della vittima, la crudeltà del selvaggio e quella dell'uomo civilizzato, in quella che lei chiama «una turbolenza sotterranea» che si ripete lungo tutta la storia, fino a oggi, alle immagini della cronaca (anche italiana) che Kara ritaglia dai quotidiani e che diventano poi i tabù in controluce dei suoi video.

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Kara Walker, You Do, 1993-94 (detail). Cut Paper on canvas. Courtesy the artist and Sikkema Jenkins & Co., New York

Un oceano che si fa persona e inghiotte degli uomini marchiati con la parola «black», che poi scivolano dentro un lungo intestino e vengono espulsi come feci; un amplesso omosessuale (che ha più a che fare con il potere che con il sesso) tra uno schiavo nero e il suo padrone bianco; neonati gettati via in una pozza di sangue non appena venuti alla luce.

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Figure cartoonizzate, mosse dalle sue mani come marionette, girate in 16 millimetri e sgranate come i cortometraggi d'epoca: «La notorietà in un certo senso solidifica l'immagine di te, rischia di bloccare l'evoluzione della tua identità, ed è per questo che io cerco di frammentarla nuovamente ogni volta che entro in studio, usando tecniche diverse dalle solite».
Fonte
http://learn.walkerart.org/karawalker

Qui sotto alcune opere in mostra alla Fondazione Merz fino al 3 luglio 2011

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TIBET: PHOTOS BY DMITRY SHATROV

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All images © Dmitry Shatrov


Fonte
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