Sebbene le sue innumerevoli innovazioni di fotoritocco
anticipassero di più di settant’anni quello che oggi è Photoshop e nonostante
lavorasse nell’industria hollywoodiana insieme a registi e star del cinema, la
reputazione di William Mortensen fu così intaccata dalla malevolenza di certi
colleghi da renderlo quasi un illustre sconosciuto agli occhi della storia,
fino a pochi anni fa.
Intanto perché Mortensen, ancora negli anni ’20 e fino ai
’40, in pieno movimento realistico della fotografia, utilizzava le
tecniche del pittorialismo, il movimento nato alla fine del XIX secolo con l’intento di
conferire alla nuova arte la stessa dignità della pittura e della scultura.
Anzi, nella maggior parte dei casi – come Mortensen stesso – i pittorialisti
erano proprio artisti che forzavano la fotografia alle tecniche del disegno,
del collage e dell’incisione.
Mortensen
era quindi considerato anacronistico nel panorama fotografico, un outsider in un campo che stava
rigettando con forza i set teatrali, il ritocco e il forte immaginario dei
soggetti ritratti, che nel caso del nostro variavano dal
selvaggio all’indecoroso, dal gotico al grottesco. Per questo Mortensen fu
ostracizzato dai colleghi e dalla critica:veniva definito “tra le figure più
problematiche nella fotografia del XX secolo”, le sue immagini descritte come
“aneddotiche, fortemente stucchevoli, vagamente erotiche, colorate a mano (come
fosse un demerito, quando è una delle operazioni più difficili in fotografia) o
versioni censurate delle pin-up da calendario per camionisti e dell’intrattenimento
per sadomasochisti, artificiose messe in scena con espressioni facciali
melense”.
Ansel
Adams, fotografo
e fondatore del Gruppo f/64, da
strenuo difensore della stampa convenzionale, e nel tentativo di farlo fuori
dalla storia, chiamava Mortensen “il Diavolo” e “l’Anticristo”. Vero è che, tra
i pionieri della moderna fotografia, il suo nome non figura mai.
Ma
dagli anni ’20 ai ’50, William Mortensen fu uno dei più famosi e celebrati
fotografi d’America. Tuttavia, per la nuova
guardia puritana della fotografia, lui era un reietto. Dopo la sua morte, il
lavoro di Mortensen e le sue idee furono sostenute solo da una piccola cricca
di seguaci. Solo in questi ultimi anni Mortensen è stato riconosciuto come
artista unico e innovativo, l’ultimo dei grandi fotografi del pittorialismo.
Lavorando a Hollywood, fotografò molte delle star cinematografiche del suo tempo, come Rodolfo Valentino, Jean Harlow, Lon Chaney, Fay Wray, Clara Bow e Peter Lorre tra gli altri. All’apice della sua fama, le sue immagini erano pubblicate su Vanity Fair,Photograms of the Year, American Annual of Photography e il Los Angeles Times, dove aveva una rubrica fotografica fissa, e i suoi libri, come Monsters and Madonnas e The Command To Look, erano dei bestseller.
Lavorando a Hollywood, fotografò molte delle star cinematografiche del suo tempo, come Rodolfo Valentino, Jean Harlow, Lon Chaney, Fay Wray, Clara Bow e Peter Lorre tra gli altri. All’apice della sua fama, le sue immagini erano pubblicate su Vanity Fair,Photograms of the Year, American Annual of Photography e il Los Angeles Times, dove aveva una rubrica fotografica fissa, e i suoi libri, come Monsters and Madonnas e The Command To Look, erano dei bestseller.
Mentre la maggior parte dei pittorialisti disegnava sulle
icone del Romanticismo, specialmente sopra i paesaggi e i ritratti di Caspar David Friedrich e
di John
William Waterhouse,
Mortensen disdegnava questa abitudine, giudicandola poco creativa. I suoi lavori
erano più sintonizzati sul gusto popolare ed esploravano senza vergogna
immagini primitive di sesso e violenza, che prendevano esempio dai film horror
della Universal che sbancavano i botteghini ne gli anni ’20 e ’30, e
dall’angosciante stile oscuro dell’Espressionismo
tedesco che li ispirava. L’Amour, una delle immagini più iconiche di Mortensen,
raffigura una donna mezza nuda sdraiata a terra, forse morta, mentre uno
scimmione mostruoso la guarda lascivo sopra di lei brandendo un bastone –
chiaro riferimento al King
Kong realizzato due anni prima, nel 1933.
Mortensen produsse anche immagini esplicite di morte e
tortura, molto prima che il pubblico fosse esposto quotidianamente a certo tipo
di materiale attraverso i reportage di guerra. The Glory of War, del 1927, ritrae una giovane donna sdraiata su
un cumulo di macerie, sporca e sanguinante mentre tiene in mano un
crocefisso, caduta sotto il peso di una trave di legno che la sovrasta. Le
persecuzioni religiose, specialmente la crocefissione, erano un tema ricorrente
nelle opere di Mortensen, nelle quali rappresentava donne nude, in catene,
messe ai ceppi e tormentate da figure incappucciate. Gli piacevano molto le
figure storiche, comeMachiavelli e Paganini, spesso impersonate da star di Hollywood. Il Metodo
Mortensen spesso rendeva arduo distinguere se
il risultato fosse conseguenza di una foto o no. Lui usava tecniche di stampa
tradizionali, come il bromolio, e sviluppava personalmente nel suo studio. Creava
componendo immagini tra loro, le raschiava e disegnava sopra le stampe, per poi
applicarvi una trama che le faceva sembrare acqueforti, mascherando in tal modo
le sue manipolazioni. Di conseguenza, ogni stampa era unica. In definitiva,
l’intento di Mortensen era quello di creare qualcosa che apparisse come una
fotografia e, ciononostante, ritraesse scene fantastiche come solo la pittura
può, al fine di provocare meraviglia e stupore nell’osservatore.
Nato
a Park City, nello Yutah, nel 1897 Mortensen era un geniale e instancabile
tecnico della camera oscura. Inventò
le sue personali texture a retino, il processo di abrasione del tono – che impiegava l’uso di una lama di
rasoio per raschiare via l’emulsione dalla stampa, usando inizialmente la
pietra pomice per poi passare a carboncini morbidi per cambiare i toni – ilMetalchrome – un processo chimico del colore che
applicato localmente trasformava le stampe da bianco e nero al colore, e un
ulteriore processo senza i sali d’argento che incorporava due colori per
trasformare il negativo in bianco e nero in una stampa a colori. Mortensen fu
anche un maestro del metodo bromolio, la tecnica di sviluppo ad olio che
conferiva qualità pittorica alla fotografia. Anche la sua conoscenza tecnica
dell’acquaforte e dell’incisione, che apprese nei suoi primi anni passati a New
York, fece la differenza. Sperimentò anche con il colore, versato o dipinto,
direttamente in fase di sviluppo della pellicola, usandone il risultato come
sfondo, figure funzionali e oggetti di forma astratta.
Ma
fu anche un pioniere dell’industria fotografica. Usando la notorietà creata dalle sue
pubblicazioni, commercializzò la sua tecnica, le sue trame a retino, i kit di
abrasione, gli occhiali visori – che permettevano ai fotografi di vedere in
monocromo – e sviluppò un approccio di vendita di massa per le sue immagini.
In questo senso, William Mortensen fu la prima
superstar della fotografia, facendo leva sulla celebrità che si
era creato per commercializzare i prodotti che portavano il suo nome.
All’epoca, Mortensen era uno dei più famosi autori del ramo artistico della
fotografia e in quei tempi, chi la rappresentava aveva solo due posti per farsi
conoscere: i saloni– di solito organizzati dalle associazioni fotografiche,
nelle loro sedi o nei musei locali – oppure attraverso la pubblicazione sui
periodici o quella di un libro. Fino agli anni ’40, solo pochi musei
collezionavano fotografia, e le collezioni private in materia erano
estremamente rare.
In
un simile contesto, è curioso notare come le fotografie di Mortensen siano
state così oltraggiate. Per uno così popolare in vita , è stato un infelice
scherzo del destino – e un tributo da pagare alla capricciosa natura dei gusti
artistici e culturali – finire ignorato dopo la morte. Questo capovolgimento di
scena non appartenne solo a Mortensen, la storia dell’arte conta molti esempi
di artisti dimenticati e poi ripescati. Ma se cerchiamo notizie su Mortensen,
quando si menziona il suo lavoro è quasi sempre accompagnato da aggettivi come
“lezioso” e “pacchiano”.
I suoi anni passati a Hollywood, dal
1921 al 1931, sono coperti dalla nebbia del tempo. Certo, Mortensen conobbe
qualcuno che lo mise in contatto con il regista King Vidor e lavorò nella fiorente industria del
cinema dipingendo fondali di scenografie, modellando maschere e collaborando
allo stesso tempo con la Western
Costume Company, realizzando le foto di scena delle star dei
film muti.
Nel 1926 lavorò con Cecil B. DeMille al film Il Re dei Re, scattando in piccolo formato durante le riprese, per passare ai grandi formati quando faceva posare gli attori a riprese concluse. Nelle stesso periodo cominciò ad esporre le sue opere anche all’estero.
Nel 1926 lavorò con Cecil B. DeMille al film Il Re dei Re, scattando in piccolo formato durante le riprese, per passare ai grandi formati quando faceva posare gli attori a riprese concluse. Nelle stesso periodo cominciò ad esporre le sue opere anche all’estero.
La sua vita
proseguì poi a Laguna Beach, in California, dove si stabilì dal 1931 al 1956.
Non sappiamo esattamente cosa lo convinse a lasciare Hollywood. Mortensen disse
che era depresso e che Hollywood era nel frattempo diventata troppo rumorosa. Fay Wray, la “prima ragazza di King Kong”nella sua
autobiografia On
The Other Hand, forse
ci da qualche indizio in più per comprendere i motivi del trasferimento di
Mortensen. Nel 1928, alcune foto che la ritraevano (scattate anni prima da
Mortensen) furono pubblicate su una rivista di cinema. Non erano foto di nudo,
ma per l’epoca erano considerate indecenti, oltretutto accompagnate dal
resoconto di come, sette anni prima, era giunta a Hollywood viaggiando da sola.
Sua madre e suo marito, insieme alla divisione pubblicitaria della Paramount, fecero pressione su Mortensen per firmare un
documento che smentiva sia le foto che la storia. Forse, questo lo spinse a
cercare un altro luogo dove vivere e lavorare. Nel suo studio di Laguna Beach
fondò anche la sua scuola di fotografia e anche in casa si era attrezzato con
una camera oscura. William Mortensen morirà di leucemia nel 1965.
Nonostante le critiche in patria, la Royal Photographic Society di Londra, una delle più antiche associazioni fotografiche del mondo, fondata nel 1853, gli conferì la prestigiosa medaglia Hood nel 1949. Nemo propheta in patria. http://www.effettoarte.com/era-william-mortensen/
Nonostante le critiche in patria, la Royal Photographic Society di Londra, una delle più antiche associazioni fotografiche del mondo, fondata nel 1853, gli conferì la prestigiosa medaglia Hood nel 1949. Nemo propheta in patria. http://www.effettoarte.com/era-william-mortensen/
All images © William Mortensen
William Mortensen (1897 - 1965) was one of the most
well known and respected photographers in America in the thirties. He worked
primarily in Southern California as a Hollywood and studio portraitist and
later taught his methods and ideas to younger generations. (See Larry Lytle's online biography of Mortensen.) Mortensen's obscurity
today is mainly due to his championing of Pictorialism, a force within
photography that promoted retouching, hand-worked negatives, chemical washes,
and an artistic, painterly approach that soon faded with the advance of
modernism.
Camera
Work (1903 - 1917) was an influential photography periodical founded by
Alfred Stieglitz. Within its pages the struggle for "photography as
art" was debated along with the principles of Pictorialism and
Modernism.[1] Camera Work's last
issue featured the photo work of Paul Strand, and soon after the "straight
photograph" held dominance, especially with the advance of fast lenses,
reportage, and compact cameras. Camera Work faded into history as interest waned
and Stieglitz no longer felt it represented the future direction of photography.
As Pictorialism’s influence was fading, it was kept alive to the public through
camera clubs, amateur photography salons, magazines, and a few die-hard
professionals such as William Mortensen, who kept up with exhibitions,
publications, and spreading knowledge through teaching the difficult
hand-worked techniques of the late-nineteenth century. Mortensen was
considered an anachronism in photography, an outsider in a field that rejected
the theatrical set-ups, retouching and strong imaginative subject matter. Ansel
Adams, high priest of the straight print, described Mortensen as both "the
devil" and "the anti-Christ." Historians seem to have sided with
Adams, as there are few mentions of Mortensen in most of the major photo
histories. In "Venus and Vulcan" -- a series of 1934 Camera
Craft magazine essays -- Mortensen defended Pictorialism against criticism from
the f.64 school and other "straight shooters": Photography,
like any other art, is a form of communication. The artist is not blowing
bubbles for his own gratification, but is speaking a language, is telling
somebody something. Three corollaries are derived from this proposition.
a. As a language, art fails unless it is clear and unequivocal in saying what it means.
b. Ideas may be communicated, not things.
c. Art expresses itself, as all languages do, in terms of symbols
a. As a language, art fails unless it is clear and unequivocal in saying what it means.
b. Ideas may be communicated, not things.
c. Art expresses itself, as all languages do, in terms of symbols
Mortensen’s
book Monsters & Madonnas, published in 1936, was a distilled manifesto of
his thoughts and a response to the dominance of straight photography. Mortensen
saw duality at work in the process of all artistic production. The technical,
mechanical, and scientific were entwined yet at odds within the creative
impulse. This duality was even more concentrated in photography, a process
obsessed by the technical and mechanical "Monster." Mortensen saw the
scientific "Threat of the Machine" -- The Monster -- standing beside
its ancient antithesis, The Madonna -- "a symbol of fruitfulness and
growth, of life and creative energy." As Mortensen proposed, the
great problem and question in the arts was to "bridge the gap" or
harmonize the mechanical and creative through technique. Monsters &
Madonnas suggests a mastery and simplification of all mechanical techniques --
"Through technique, the mechanical is bent to the needs of the creative.
In this sense of the word, most photographers completely lack technique. Many have
acquired mechanical skill, some have creative ability; but few have managed to
bridge the gap between the two." In the last section of the essay,
Mortensen concentrates on "Releasing the Imagination" and offers up
study of crystallization, geometry, and specialization as "potential
channels of Will-to-Form." He describes the creative imagination as
something eternal that connotes an "active power that demands creative
outlet… Even the death of the individual cannot destroy the imagination, for that
which is clearly and strongly imagined partakes of eternity." Mortensen
mentions strengthening the imagination through free improvisation, control, and
self-discipline. To learn photography is to find your own way in silence and
solitude. For Mortensen, "The Monster" is also a reference to the
logical, conscious mind, always in battle with the imagination. His last rule
for taming the monster is to surround yourself with finer things. "Hearing
great music, seeing great pictures, reading great books, we gradually lose a
little of the smallness and cheapness from our souls, and draw nearer to those
deep eternities wherein all arts are one." In his second book, The
Command to Look: A Formula for Picture Success, Mortensen describes his history
and relationship to photography and puts down a series of lessons for obtaining
"pictorial impact." In Mortensen's view it is a combination of sex,
sentiment, and wonder that constitute the subject of interest in a picture.
Combined with impact, they produce a lasting work of art. "The picture
must command you look at it… It is this quality that I have designated as 'the
pictorial imperative.'" Mortensen’s
best work has combined his virtuoso techniques to produce a series of
"grotesques" -- strange and weird caricatures of an extreme nature.
These works often combine the subjects of beauty and monstrosity in delightful
and seductive ways. His proximity to Hollywood and past training as an on-set
photographer kept his imagination strong and involved with theatrical and
directorial photography. Mortensen's ideas are simple and at first
glance seem entirely outdated -- but with the advance of digital photography
and the postmodern turn, we see that photography has retraced its roots in the
painterly and hand manipulated direction. This loop has again set us on a path
where science has released new "Monsters" from which creative desire
can spring. Since its beginnings, photography has dealt with tension between
the real and artificial, the mechanical and creative -- that is its cross and
raison d’etre. We are constantly revising and reconsidering what was
once reviled. The pure "straight photograph" has never existed, as
every photograph is an illusion based on reality. Only those images that have
commanded our attention with their "creative impact" have remained
with us as eternal works of art. Mortensen reminds us of the creative power of
photography -- and commands us to look. http://50watts
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