lunedì 11 luglio 2016

WILLIAM MORTENSEN | PHOTOGRAPHER

Sebbene le sue innumerevoli innovazioni di fotoritocco anticipassero di più di settant’anni quello che oggi è Photoshop e nonostante lavorasse nell’industria hollywoodiana insieme a registi e star del cinema, la reputazione di William Mortensen fu così intaccata dalla malevolenza di certi colleghi da renderlo quasi un illustre sconosciuto agli occhi della storia, fino a pochi anni fa.
Intanto perché Mortensen, ancora negli anni ’20 e fino ai ’40, in pieno movimento realistico della fotografia, utilizzava le tecniche del pittorialismo, il movimento nato alla fine del XIX secolo con l’intento di conferire alla nuova arte la stessa dignità della pittura e della scultura. Anzi, nella maggior parte dei casi – come Mortensen stesso – i pittorialisti erano proprio artisti che forzavano la fotografia alle tecniche del disegno, del collage e dell’incisione.
Mortensen era quindi considerato anacronistico nel panorama fotografico, un outsider in un campo che stava rigettando con forza i set teatrali, il ritocco e il forte immaginario dei soggetti ritratti, che nel caso del nostro variavano dal selvaggio all’indecoroso, dal gotico al grottesco. Per questo Mortensen fu ostracizzato dai colleghi e dalla critica:veniva definito “tra le figure più problematiche nella fotografia del XX secolo”, le sue immagini descritte come “aneddotiche, fortemente stucchevoli, vagamente erotiche, colorate a mano (come fosse un demerito, quando è una delle operazioni più difficili in fotografia) o versioni censurate delle pin-up da calendario per camionisti e dell’intrattenimento per sadomasochisti, artificiose messe in scena con espressioni facciali melense”.
Ansel Adams, fotografo e fondatore del Gruppo f/64, da strenuo difensore della stampa convenzionale, e nel tentativo di farlo fuori dalla storia, chiamava Mortensen “il Diavolo” e “l’Anticristo”. Vero è che, tra i pionieri della moderna fotografia, il suo nome non figura mai.
Ma dagli anni ’20 ai ’50, William Mortensen fu uno dei più famosi e celebrati fotografi d’America. Tuttavia, per la nuova guardia puritana della fotografia, lui era un reietto. Dopo la sua morte, il lavoro di Mortensen e le sue idee furono sostenute solo da una piccola cricca di seguaci. Solo in questi ultimi anni Mortensen è stato riconosciuto come artista unico e innovativo, l’ultimo dei grandi fotografi del pittorialismo.
Lavorando a Hollywood, fotografò molte delle star cinematografiche del suo tempo, come Rodolfo Valentino, Jean Harlow, Lon Chaney, Fay Wray, Clara Bow e Peter Lorre tra gli altri. All’apice della sua fama, le sue immagini erano pubblicate su Vanity Fair,Photograms of the Year, American Annual of Photography e il Los Angeles Times, dove aveva una rubrica fotografica fissa, e i suoi libri, come Monsters and Madonnas e The Command To Look, erano dei bestseller.
Mentre la maggior parte dei pittorialisti disegnava sulle icone del Romanticismo, specialmente sopra i paesaggi e i ritratti di Caspar David Friedrich e di John William Waterhouse, Mortensen disdegnava questa abitudine, giudicandola poco creativa. I suoi lavori erano più sintonizzati sul gusto popolare ed esploravano senza vergogna immagini primitive di sesso e violenza, che prendevano esempio dai film horror della Universal che sbancavano i botteghini ne gli anni ’20 e ’30, e dall’angosciante stile oscuro dell’Espressionismo tedesco che li ispirava. L’Amour, una delle immagini più iconiche di Mortensen, raffigura una donna mezza nuda sdraiata a terra, forse morta, mentre uno scimmione mostruoso la guarda lascivo sopra di lei brandendo un bastone – chiaro riferimento al King Kong realizzato due anni prima, nel 1933.
Mortensen produsse anche immagini esplicite di morte e tortura, molto prima che il pubblico fosse esposto quotidianamente a certo tipo di materiale attraverso i reportage di guerra. The Glory of War, del 1927, ritrae una giovane donna sdraiata su un cumulo di macerie, sporca e sanguinante mentre tiene in mano un crocefisso, caduta sotto il peso di una trave di legno che la sovrasta. Le persecuzioni religiose, specialmente la crocefissione, erano un tema ricorrente nelle opere di Mortensen, nelle quali rappresentava donne nude, in catene, messe ai ceppi e tormentate da figure incappucciate. Gli piacevano molto le figure storiche, comeMachiavelli e Paganini, spesso impersonate da star di Hollywood. Il Metodo Mortensen spesso rendeva arduo distinguere se il risultato fosse conseguenza di una foto o no. Lui usava tecniche di stampa tradizionali, come il bromolio, e sviluppava personalmente nel suo studio. Creava componendo immagini tra loro, le raschiava e disegnava sopra le stampe, per poi applicarvi una trama che le faceva sembrare acqueforti, mascherando in tal modo le sue manipolazioni. Di conseguenza, ogni stampa era unica. In definitiva, l’intento di Mortensen era quello di creare qualcosa che apparisse come una fotografia e, ciononostante, ritraesse scene fantastiche come solo la pittura può, al fine di provocare meraviglia e stupore nell’osservatore.
Nato a Park City, nello Yutah, nel 1897 Mortensen era un geniale e instancabile tecnico della camera oscura. Inventò le sue personali texture a retino, il processo di abrasione del tono – che impiegava l’uso di una lama di rasoio per raschiare via l’emulsione dalla stampa, usando inizialmente la pietra pomice per poi passare a carboncini morbidi per cambiare i toni – ilMetalchrome – un processo chimico del colore che applicato localmente trasformava le stampe da bianco e nero al colore, e un ulteriore processo senza i sali d’argento che incorporava due colori per trasformare il negativo in bianco e nero in una stampa a colori. Mortensen fu anche un maestro del metodo bromolio, la tecnica di sviluppo ad olio che conferiva qualità pittorica alla fotografia. Anche la sua conoscenza tecnica dell’acquaforte e dell’incisione, che apprese nei suoi primi anni passati a New York, fece la differenza. Sperimentò anche con il colore, versato o dipinto, direttamente in fase di sviluppo della pellicola, usandone il risultato come sfondo, figure funzionali e oggetti di forma astratta.
Ma fu anche un pioniere dell’industria fotografica. Usando la notorietà creata dalle sue pubblicazioni, commercializzò la sua tecnica, le sue trame a retino, i kit di abrasione, gli occhiali visori – che permettevano ai fotografi di vedere in monocromo – e sviluppò un approccio di vendita di massa per le sue immagini.
In questo senso, William Mortensen fu la prima superstar della fotografia, facendo leva sulla celebrità che si era creato per commercializzare i prodotti che portavano il suo nome. All’epoca, Mortensen era uno dei più famosi autori del ramo artistico della fotografia e in quei tempi, chi la rappresentava aveva solo due posti per farsi conoscere: i saloni– di solito organizzati dalle associazioni fotografiche, nelle loro sedi o nei musei locali – oppure attraverso la pubblicazione sui periodici o quella di un libro. Fino agli anni ’40, solo pochi musei collezionavano fotografia, e le collezioni private in materia erano estremamente rare.
In un simile contesto, è curioso notare come le fotografie di Mortensen siano state così oltraggiate. Per uno così popolare in vita , è stato un infelice scherzo del destino – e un tributo da pagare alla capricciosa natura dei gusti artistici e culturali – finire ignorato dopo la morte. Questo capovolgimento di scena non appartenne solo a Mortensen, la storia dell’arte conta molti esempi di artisti dimenticati e poi ripescati. Ma se cerchiamo notizie su Mortensen, quando si menziona il suo lavoro è quasi sempre accompagnato da aggettivi come “lezioso” e “pacchiano”.
I suoi anni passati a Hollywood, dal 1921 al 1931, sono coperti dalla nebbia del tempo. Certo, Mortensen conobbe qualcuno che lo mise in contatto con il regista King Vidor e lavorò nella fiorente industria del cinema dipingendo fondali di scenografie, modellando maschere e collaborando allo stesso tempo con la Western Costume Company, realizzando le foto di scena delle star dei film muti.
Nel 1926 lavorò con Cecil B. DeMille al film Il Re dei Re, scattando in piccolo formato durante le riprese, per passare ai grandi formati quando faceva posare gli attori a riprese concluse. Nelle stesso periodo cominciò ad esporre le sue opere anche all’estero.
La sua vita proseguì poi a Laguna Beach, in California, dove si stabilì dal 1931 al 1956. Non sappiamo esattamente cosa lo convinse a lasciare Hollywood. Mortensen disse che era depresso e che Hollywood era nel frattempo diventata troppo rumorosa. Fay Wray, la “prima ragazza di King Kong”nella sua autobiografia On The Other Hand, forse ci da qualche indizio in più per comprendere i motivi del trasferimento di Mortensen. Nel 1928, alcune foto che la ritraevano (scattate anni prima da Mortensen) furono pubblicate su una rivista di cinema. Non erano foto di nudo, ma per l’epoca erano considerate indecenti, oltretutto accompagnate dal resoconto di come, sette anni prima, era giunta a Hollywood viaggiando da sola. Sua madre e suo marito, insieme alla divisione pubblicitaria della Paramount, fecero pressione su Mortensen per firmare un documento che smentiva sia le foto che la storia. Forse, questo lo spinse a cercare un altro luogo dove vivere e lavorare. Nel suo studio di Laguna Beach fondò anche la sua scuola di fotografia e anche in casa si era attrezzato con una camera oscura. William Mortensen morirà di leucemia nel 1965.
Nonostante le critiche in patria, la Royal Photographic Society di Londra, una delle più antiche associazioni fotografiche del mondo, fondata nel 1853, gli conferì la prestigiosa medaglia Hood nel 1949. Nemo propheta in patria.
http://www.effettoarte.com/era-william-mortensen/



























All images ©  William Mortensen

William Mortensen (1897 - 1965) was one of the most well known and respected photographers in America in the thirties. He worked primarily in Southern California as a Hollywood and studio portraitist and later taught his methods and ideas to younger generations. (See Larry Lytle's online biography of Mortensen.) Mortensen's obscurity today is mainly due to his championing of Pictorialism, a force within photography that promoted retouching, hand-worked negatives, chemical washes, and an artistic, painterly approach that soon faded with the advance of modernism.
Camera Work (1903 - 1917) was an influential photography periodical founded by Alfred Stieglitz. Within its pages the struggle for "photography as art" was debated along with the principles of Pictorialism and Modernism.[1] Camera Work's last issue featured the photo work of Paul Strand, and soon after the "straight photograph" held dominance, especially with the advance of fast lenses, reportage, and compact cameras. Camera Work faded into history as interest waned and Stieglitz no longer felt it represented the future direction of photography. As Pictorialism’s influence was fading, it was kept alive to the public through camera clubs, amateur photography salons, magazines, and a few die-hard professionals such as William Mortensen, who kept up with exhibitions, publications, and spreading knowledge through teaching the difficult hand-worked techniques of the late-nineteenth century. Mortensen was considered an anachronism in photography, an outsider in a field that rejected the theatrical set-ups, retouching and strong imaginative subject matter. Ansel Adams, high priest of the straight print, described Mortensen as both "the devil" and "the anti-Christ." Historians seem to have sided with Adams, as there are few mentions of Mortensen in most of the major photo histories. In "Venus and Vulcan" -- a series of 1934 Camera Craft magazine essays -- Mortensen defended Pictorialism against criticism from the f.64 school and other "straight shooters": Photography, like any other art, is a form of communication. The artist is not blowing bubbles for his own gratification, but is speaking a language, is telling somebody something. Three corollaries are derived from this proposition.

a. As a language, art fails unless it is clear and unequivocal in saying what it means.
b. Ideas may be communicated, not things.
c. Art expresses itself, as all languages do, in terms of symbols
Mortensen’s book Monsters & Madonnas, published in 1936, was a distilled manifesto of his thoughts and a response to the dominance of straight photography. Mortensen saw duality at work in the process of all artistic production. The technical, mechanical, and scientific were entwined yet at odds within the creative impulse. This duality was even more concentrated in photography, a process obsessed by the technical and mechanical "Monster." Mortensen saw the scientific "Threat of the Machine" -- The Monster -- standing beside its ancient antithesis, The Madonna -- "a symbol of fruitfulness and growth, of life and creative energy." As Mortensen proposed, the great problem and question in the arts was to "bridge the gap" or harmonize the mechanical and creative through technique. Monsters & Madonnas suggests a mastery and simplification of all mechanical techniques -- "Through technique, the mechanical is bent to the needs of the creative. In this sense of the word, most photographers completely lack technique. Many have acquired mechanical skill, some have creative ability; but few have managed to bridge the gap between the two." In the last section of the essay, Mortensen concentrates on "Releasing the Imagination" and offers up study of crystallization, geometry, and specialization as "potential channels of Will-to-Form." He describes the creative imagination as something eternal that connotes an "active power that demands creative outlet… Even the death of the individual cannot destroy the imagination, for that which is clearly and strongly imagined partakes of eternity." Mortensen mentions strengthening the imagination through free improvisation, control, and self-discipline. To learn photography is to find your own way in silence and solitude. For Mortensen, "The Monster" is also a reference to the logical, conscious mind, always in battle with the imagination. His last rule for taming the monster is to surround yourself with finer things. "Hearing great music, seeing great pictures, reading great books, we gradually lose a little of the smallness and cheapness from our souls, and draw nearer to those deep eternities wherein all arts are one." In his second book, The Command to Look: A Formula for Picture Success, Mortensen describes his history and relationship to photography and puts down a series of lessons for obtaining "pictorial impact." In Mortensen's view it is a combination of sex, sentiment, and wonder that constitute the subject of interest in a picture. Combined with impact, they produce a lasting work of art. "The picture must command you look at it… It is this quality that I have designated as 'the pictorial imperative.'" Mortensen’s best work has combined his virtuoso techniques to produce a series of "grotesques" -- strange and weird caricatures of an extreme nature. These works often combine the subjects of beauty and monstrosity in delightful and seductive ways. His proximity to Hollywood and past training as an on-set photographer kept his imagination strong and involved with theatrical and directorial photography. Mortensen's ideas are simple and at first glance seem entirely outdated -- but with the advance of digital photography and the postmodern turn, we see that photography has retraced its roots in the painterly and hand manipulated direction. This loop has again set us on a path where science has released new "Monsters" from which creative desire can spring. Since its beginnings, photography has dealt with tension between the real and artificial, the mechanical and creative -- that is its cross and raison d’etre. We are constantly revising and reconsidering what was once reviled. The pure "straight photograph" has never existed, as every photograph is an illusion based on reality. Only those images that have commanded our attention with their "creative impact" have remained with us as eternal works of art. Mortensen reminds us of the creative power of photography -- and commands us to look.  http://50watts

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