martedì 15 novembre 2016

BRASILE DI SANGUE | MARCO NEGRI



In Brasile è come se il terreno fosse più permeabile che altrove. Come se assorbisse il sangue più rapidamente.
Prima di lasciare che qualcuno possa chiedersi da dove provenga o per quale motivo inondi le strade del paese più che in qualsiasi altra nazione in guerra. Mentre “Samba, multata e futebol”, aiutano a distogliere l’attenzione dalla mattanza, dallo stillicidio di morte che pone il gigante sudamericano in testa alla classifica mondiale di omicidi.
Per ogni cento assassinii che si verificano nel mondo, 13 si registrano in Brasile, dice l’Oms. In media uno ogni 10 minuti. Tra il 2012 e il 2015 non si è mai scesi sotto i 58mila. Negli ultimi cinque anni, i morti ammazzati in Brasile sono stati in pratica più del doppio del contemporaneo conflitto in Siria. L’opinione pubblica nazionale e internazionale non si indigna. Neanche di fronte a una vittimologia, che delinea i profili di un genocídio. “Dei 58mila morti del 2012, 30mila erano giovani tra i 15 e i 29 anni. Di questi il 70% erano maschi neri” dicono da Amnesty International.
“Quando una madre nera e di periferia vede il figlio adolescente uscire di casa, vive con angoscia ogni minuto”. Il figlio di Monica Cunha, ora attivista della Rede de comunidades contra a violência, fu ucciso in strada davanti alla porta di casa. “La verità è che se un ragazzino è nero, povero e favelado, è destinato a morire, perché viviamo in un Paese razzista e genocida. Il preconcetto – dice – è economico. Un giovane nero ricco che vive in un quartiere esclusivo, dovrebbe andare in giro con un cartello che informi sulla sua buona condizione economica. Così eviterebbe di finire nel mirino degli altri neri, quelli poveri e di favela; quelli che devono morire”, identificati sempre e comunque come criminali o border line. Il problema in Brasile è molto grave e affonda le radici nella cultura coloniale schiavista che ha mantenuto inalterati alcuni dogmi fino ad oggi. “Nonostante oltre cento anni fa ci sia stata l’abolizione della schiavitù, il razzismo permea ancora la cultura della società” afferma senza esitazioni il presidente del Consiglio di tutela dei diritti dei neri dello Stato di Rio de Janeiro, Luiz Eduardo Oliveira Negrogum “e questo è evidente soprattutto nelle strutture che dovrebbero garantire sicurezza e tutela dei diritti. La punta dell’iceberg del razzismo è – infatti- lo sterminio dei giovani neri”.
Secondo i dati diffusi dall’Onu lo scorso anno la polizia in servizio ha ucciso oltre 2000 persone in Brasile, in maggioranza neri. Nella città di Rio de Janeiro si registra il triste record nazionale. Dei 1552 assassinii registrati in città nel 2014, 247 sono diretta responsabilità della polizia. Dei 1564 omicidi del 2015, alla Polizia ne sono imputati 307. Ben nel 77% dei casi erano giovani neri. “A Rio de Janeiro – afferma la portavoce di Amnesty International Renata Neder – la polizia in servizio negli ultimi anni è stata responsabile tra 15 e 20% dei omicidi complessivi. Se pensiamo dovrebbe essere questa l’istituzione chiamata a difendere e garantire i diritti dei cittadini, l’inquietudine è tanta”.
A complicare il quadro già drammatico c’è la gravissima carenza investigativa: solo tra il 5 e 8% dei casi di omicidio sono investigati, molti meno quelli risolti. L’impunità non fa altro che favorire il dilagare del fenomeno. Ma le cause sono anche altre per Renata Neder: “Oltre al razzismo e alla diffusione di armi da fuoco, in particolare le politiche di sicurezza pubblica votate alla guerra al narcotraffico. In particolare a Rio – afferma – la sicurezza pubblica, non è vista come garanzia di diritti umani, ma solo come attività repressiva, portata avanti da una polizia estremamente militarizzata che opera con modalità di guerra in favelas viste come luoghi di eccezione di diritto dove si combatte contro un nemico”.
Con l’avvento della Upp, la situazione purtroppo non è cambiata. Nonostante la pacificazione informa Renata Neder “sono troppe le denunce di sparizioni sospette, abusi, stupri e omicidi commessi dalla polizia”. La Upp non è riuscita a superare questo gap e non è riuscita a raggiungere gli obiettivi per i quali era stata ideata. Non è cambiata la polizia, non è cambiato l’approccio, non si sono affievoliti i preconcetti sulla favela. “Il progetto di pacificazione è nato morto, è stato solo annunciato, l’attuazione della polizia è rimasta la stessa – afferma Negrogum – così come la visione dei soldati: è negro, è bandito, è marginale e deve morire”. Anche se innocente, come in molti casi.
Uno dei casi più gravi della pacificazione, che più di altri ha rovinato l’immagine già opaca della Upp, è stato quello di Amarildo de Sousa: torturato, ucciso e fatto sparire dai poliziotti della Upp di Rocinha nel luglio del 2013.
L’uomo fu fermato dalla polizia durante un’operazione antidroga denominata “pace armata” mentre tornava da un pomeriggio di pesca. Ritenuto vicino agli ambienti del narcotraffico, fu interrogato in una sede della Upp perché si pensava potesse essere in possesso di informazioni sul nascondiglio di droga e armi dei criminali. Dopo essere stato a lungo interrogato fu trasferito verso un’altra struttura periferica della Upp per essere torchiato. Sottoposto a una lunga seduta di tortura, morì nella Upp. Tredici responsabili del fatto, tra i quali il maggiore Edson Santos, comandante della UPP, sono stati condannati appena poche settimane fa per tortura seguita da morte, occultamento di cadavere e frode procesuale. Solo la tenacia della moglie e dei familiari dell’uomo e le proteste dell’intera comunità di Rocinha e di molte ong hanno reso possibile ottenere delle indagini puntuali e un risultato giudiziario, nonostante i numerosi tentativi di depistaggio e inquinamento delle prove. Malgrado le condanne, il corpo dell’uomo non è stato ancora trovato.
testo Luigi Spera
























All images © Marco Negri

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