Al Bozar e in città due secoli di percorsi creativi
Come esiste il concetto antropologico di «latinità», o di «fiorentinità», per la pittura rinascimentale e la poesia ermetica esiste anche un’analoga definizione di «mexicanidad» che soprattutto le fiorenti avanguardie sudamericane novecentesche rivendicarono. Ma è possibile, grazie all’arte, in un’unica mostra, «mostrare per imago» questa «messicanità», a partire dalle prime, sontuose vestigia pre-colombiane per giungere poi alle ultime manifestazioni d’arte contemporanea? Ci si prova l’intera città di Bruxelles e l’istituzione del Bozar, che attraverso balletti e film, perfomances teatrali e canzoni folk, tenta di restituire una radiografia il più possibile esaustiva e rapsodica d'una civiltà multisecolare, quale quella messicana. Intessuta e riletta soprattutto attraverso un percorso visivo di Imagines del Mexicano, come indica la sezione principale di questa gran kermesse, a molti pannelli. Assai importante anche la sezione architettonica, sia pur soltanto fotografica (né disegni né maquettes) che dimostra comunque l’alta qualità del Modernismo indigeno. Meno spettacolare la sezione dedicata alla fotografia contemporanea, che non brilla di originalità, leggermente onirica, molto documentaria, anche se ha alle spalle il magistero di fotografi quali la nostra Tina Modotti, in complice competizione con due geniali dell’immagine come Manuel e Lola Alvarez Bravo.
José María Zepeda de Estrada, Retrato de Francisco Torres, 1846 © Museo Nacional de Arte, INBA
Un clima, rivoluzionario e passionale, incendiato, da murales, caratterizza il Messico, sin dagli anni della sua Indipendenza, nel pieno dell’Ottocento romantico, a partire dal Grito di Dolores, ancor pre-risorgimentale, che prorompe da Miguel Hidalgo, nel 1810, per invocare l’indipendenza dagli spagnoli invasori. La mostra quindi celebra insieme due anniversari: il bicentenario dell’Indipendenza ed il centenario della rivoluzione, che prende fuoco agli anni Dieci del ‘900, contro il dittatore Porfirio Diaz. Ed il Belgio viene pesantemente investito dall’anniversario, anche perché belga di origine era l’imperatrice Charlotte, che va sposa al fratello di Francesco Giuseppe, Massimiliano d'Asburgo, fucilato dai ribelli, nel 1867, come ci racconta un celebre quadro «goyesco» di Manet. Tre soli anni d’impero «messicanizzato»: lo dimostrano i ritratti con quei basettoni esagerati, che paion le vesti irsute del Buon Selvaggio russoviano, e le icone folkloriche, in cui volentieri questo Asburgo si cala, per essere accettato.
Travestendosi da fiero Chinaco, ricco proprietario terriero con impeto d’hidalgo, o meglio ancora da semplice contadino Charro, pasciuto e soddisfatto. Anche perché, se sempre la lotta di classe e la battaglia coloniale, presiede a quest’immaginario, l’iconografia quasi stereotipata del meticcio o del popolano strafottente e pieno di sé, invade tutta questa ritrattistica. Come l’aspetto insieme impegnato ma anche visionario, quasi onirico e naif di artisti come Saturnino Hernan, Roberto Montenero (strano sia assente il magnifico Dottor Alt) e poi soprattutto Hermenegildo Bustos, che anni fa si meritò un debito volume «borgesiano» di Ricci. E che poi sbocca sino a Frida Kalho, omaggiata qui da una mostra a sé, non troppo memorabile.
IMAGINES DEL MEXICANO
BRUXELLES. BOZAR
FINO AL 10 MAGGIO
MARCO VALLORA
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