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martedì 8 gennaio 2013

BEHROUZ RESHAD | PHOTOGRAPHER

Behrouz Reshad is 
an Iranian social documentary photographer

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All images © Behrouz Reshad

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domenica 7 ottobre 2012

LE FOTOGRAFIE DI ABBAS KIAROSTAMI

Abbas Kiarostami (Teheran, 22 giugno 1940) è un regista, sceneggiatore, montatore, poeta, fotografo, pittore e scultore iraniano.

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Esponente di prim'ordine del cinema iraniano è uno dei registi internazionali più considerati e apprezzati, tanto da guadagnarsi la stima di numerosi cineasti di fama. A tal proposito Godard ha dichiarato:"Il cinema inizia con D.W Griffith e finisce con Abbas Kiarostami", lo stesso Scorsese definisce Kiarostami come il modello più alto di regista cinematografico. Rimanendo in Italia Nanni Moretti è da sempre un suo grande estimatore. A tal proposito un esempio è il suo cortometraggio Il giorno della prima di Close Up, dove Moretti proietta (e lo proiettò realmente) il film di Kiarostami al Nuovo Sacher di Roma. Il corto altro non è che una amara e ironica riflessione sulle difficoltà del cinema d'autore nell'avere un riscontro al botteghino.

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Nato a Tehran, in Iran, dopo aver vinto un premio di pittura all'età di diciotto anni, si laurea all'università di Belle Arti della sua città e prima di intraprendere la carriera di regista, lavora come graphic designer nella pubblicità e nell'illustrazione di libri per bambini. Proprio quest'ultimi diventeranno infatti protagonisti pressocché costanti di molte sue pellicole e la delicatezza e il rispetto usato da Kiarostami nel dirigerli, diverrà quasi un suo marchio di fabbrica. Da grafico pubblicitario gira, nella metà degli anni sessanta, più di 15o spot per la televisone di Stato. Nonostante le varie vicissitudini vissute dal suo paese, compresa la Rivoliuzione del 79, decide ugualmente di rimanere Teheran e superata la trentina decide di intraprendere la carriera cinematografica. I suoi esordi riguardano per lo più cortometraggi ispirati al cinema Neorealista italiano. Il suo primo lungometraggio di rilievo s'intitola Il viaggiatore, girato nel 1974, dove il protagonista, un piccolo adolescente, cerca in tutti i modi di procurarsi un biglietto per vedere allo stadio la partita della nazionale a Teheran. Una costante, nella sua carriera sarà sempre la direzione di documentari, spesso a sfondo didattico, negli anni ottanta girerà infatti numerosi cortometraggi a sfondo educativo.

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Nel 1997 ha vinto la Palma d'oro per il miglior film con Il sapore della ciliegia.
Nel 2005 ha diretto un episodio di Tickets assieme ad Ermanno Olmi e Ken Loach.
Ha anche pubblicato dei libri di poesie che richiamano nella struttura gli haiku giapponesi, si tratta di poesie di pochi versi e senza rima. In essi spesso rappresenta la vita quotidiana, piccoli frammenti di normalità guardati con lo stupore di un bambino. Sue raccolte sono "Con il vento"(2001) e "Un lupo in agguato"(2003).


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All images © ABBAS KIAROSTAMI
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sabato 8 ottobre 2011

FLAGS BY SARA RAHBAR

SARA RAHBAR. New York.

Sara Rahbar nasce a Teheran, in Iran nel 1976.
A causa della rivoluzione in Iran e l’inizio della guerra tra Iraq e Iran è costretta, insieme alla sua famiglia, a scappare negli Stati Uniti.
Dal 1996 al 2000 studia a New York al Fashon Institute of Tecnology e dal 2004 al 2005 studia a Londra presso il College of Art and Design.

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Dopo aver terminato gli studi universitari, torna in Iran per sviluppare un documentario chiamato “Nessun corpo del nemico”, sulla cultura giovanile iraniana e per seguire le elezioni presidenziali del 2005; è in questo periodo che prende coscienza di quello che diventerà poi il suo lavoro e l’importanza di educare attraverso le sue opere.
Artista donna, iraniano-americana, contemporanea, che spazia dalla fotografia alla tessitura, dall’installazione alla scultura, dal cinema al video. Tutto il suo lavoro verte su argomenti politici, intellettuali, sull’indagine dell’identità personale scissa, poiché trascinata in un paese ospitante, straniero, che rimarrà tale per tutta la vita.
Arte, umanità e identità si fondono per un obiettivo comune, quello di avviare un processo di pensiero, di mostrare un punto di vista diverso secondo lo spettatore.

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L’arte offre la possibilità di interpretare e l’opera di Sara Rahbar, rappresenta la sua prospettiva sulle cose, la sua interpretazione personale. La sua percezione va di là del sesso, della razza, della religione bensì, si focalizza su un’immagine più grande quale la cultura e l’identità degli esseri umani che tentano di sopravvivere in questo mondo.
L’intenzione dell’artista è quella di concentrarsi sulle somiglianze degli esseri umani invece che sulle differenze tra questi.
Viaggia continuamente tra l’America e l’Iran, partecipa a mostre in tutto il mondo e negli ultimi anni, la sua carriera le ha portato centinaia di pubblicazioni e interviste.

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Textile Revolution

L’attività artistica di Sara Rahbar
Le opere di Sara Rahabar possiamo suddividerle in serie, ogni serie è costituita da storie. Sono come libri fatti di pagine raccontate, ogni pezzo di tessuto è una pagina e tanti pezzi insieme formano tante pagine che completano un momento, una storia e un tempo.
Nella serie delle bandiere ogni bandiera è una pagina. Somigliano ad arazzi e sono state create con metodi biologici.
Nel processo della vita, durante ogni viaggio tra Iran e America, questi tessuti hanno preso vigore, sono stati scelti con cura insieme a metalli e altri pezzi unici. A volte un pezzo unico racconta una storia particolare, ma la maggior parte delle volte, queste stoffe comunicano tra loro e creano una grande storia fatta di memorie.

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Le bandiere raccontano la storia di Sara Rahbar, la sua vita, i suoi viaggi, la fuga dalla guerra e l’approdo in America che rappresenta il rifugio, un paese sponsorizzato da tutti, in cui il consumo è di massa e in cui vige il caos. E poi il ritorno in Iran dove invece i beni primari quali il cibo e l’acqua, sono beni di pochi e dove la povertà è all’ordine del giorno.
Queste bandiere hanno colori, simboli e forme così strane, ma ciò che è ancora più strano, è il valore che noi diamo ad esse. È difficile raccontare il lavoro di Sara Rahabar attraverso parole, lei si muove secondo istinti naturali seguendo con attenzione ciò che la circonda.

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Non tutti riescono a leggere l’esatto messaggio contenuto nella rappresentazione delle sue opere e questo non è così importante, ciò che ha valore è la creazione dell’opera stessa, il resto è compito di altri. Il suo lavoro viene da dentro, dal profondo, si tratta di concetti, colori e immagini che insieme formano un processo mentale che non si può vedere, ma si può solo percepire.
I primi lavori sono stati eseguiti con materiali selezionati, provenienti da luoghi rappresentanti la sua origine culturale, come fosse un tentativo di familiarizzare con una bandiera e il suo significato simbolico; ben presto il suo lavoro si è ingrandito è andato oltre questa visione.

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La prima risposta emotiva alla v isione di una bandiera americana, fu per l’artista una sensazione di rabbia ora invece, è diventata curiosità e quasi un’ossessione.
Molti ricordi la stringono al passato, il trasferimento in America, la difficoltà con la lingua, i primi giorni di scuola e proprio ad uno di questi giorni è collegato il suo primo approccio con la bandiera americana, quando in classe, si rifiutò di porre il saluto abituale alla bandiera.
Quel momento è vivo in lei, in un tempo in cui l’ignoranza verso il Medio Oriente è all’eccesso, in cui le persone sono convinte che l’Iran e l’Iraq siano lo stesso paese e che il Medio Oriente sia formato solo da arabi.

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La guerra è un modo per far conoscere la geografia agli americani (W. Churchill) è una frase che, secondo Sara, non si smentisce; la maggior parte delle persone sono un riflesso del luogo in cui vivono e apprendono le influenze secondo la loro ubicazione geografica.
I politici, i mass media, i sistemi d’istruzione, sono fattori da tenere in considerazione quando si osservano le persone. Non ci sono vittime, i limiti stanno nelle mani delle persone che non vogliono guardare oltre ciò che gli si fa vedere.

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Quando avvennero i fatti dell’11 Settembre, si respirava paura tra le strade americane; Sara Rahbar e altri che non esposero la bandiera americana fuori dalle proprie abitazioni, ricevettero minacce. Ci fu il terrore per il popolo iraniano e vennero meno diritti come la libertà degli individui.

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Viviamo in una società costituita da “etichette” afferma Sara Rahbar, una società in cui luoghi comuni e marchi, portano solo alla separazione tra gli esseri umani, provocando inutili spazi vuoti tra gli individui. Non crede alla devozione verso una bandiera, una religione o uno stato infatti, attraverso il suo lavoro, cerca di eliminare tutto questo, poiché etichettare è solo un modo per avere maggiore sicurezza di sé. L’uomo ha bisogno di definire tutto, ha paura del buio, paura di non poter controllare ciò che lo circonda, la soluzione a questo è dare nomi, definire, dividere in marchi, in luoghi comuni, è sottolineare categorie e gruppi.
Tutto ciò è corretto nel momento in cui si tratta di cose, ma quando parliamo di persone, il problema si fa complesso. Definizioni, simboli, malintesi e obsolete menzogne hanno creato muri, come meccanismi di difesa
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L’artista tende ad eliminare queste differenza, la sua arte è la vita, è un sommarsi casuale di cose, non ha subito influenze di un gruppo specifico di artisti, ogni nuova idea porta ad un grande nuovo lavoro.
Il fatto di essere nata in Iran e cresciuta in America, gioca un ruolo importante nel suo impegno, cerca di unire insieme le culture, poiché siamo fatti tutti di carne e ossa, siamo tutti esseri umani e il resto è solo il nostro stile di vita che preferiamo. Dichiara che bisogna fermare gli ostacoli tra i singoli, perché sono proprio queste barriere che portano guerra e divisione. Viviamo in un mondo strano, pieno di maschere e filtri e quando abbassiamo la guardia, ci scopriamo soggetti vulnerabili e simili l’uno con l’altro.

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Quando l’artista osserva una bandiera, vede solo un tessuto ma, se rivolge lo sguardo più profondamente, percepisce che essa rappresenta un senso di sé, un mondo perso nel disagio e nella sofferenza. La bellezza, sta nell’osservare più tessuti, più bandiere unite tra loro per creare un’unica identità più forte. È la sua soluzione a questo mondo, è la sua capacità di legare gli individui, questo è il suo modo di esprimersi.

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L’arte di Sara Rhabar non cambierà il mondo, non cambierà punti di vista, ciò che è certo è che porterà un miglioramento, un frammento alla volta, costruirà un processo di pensiero. Non c’è spazio per l’ironia, c’è la voglia di coinvolgere le persone a dialogare a spostare lo sguardo lontano da definizioni come maschio, femmina, ebreo, arabo, americano, iraniano e dunque voltarsi verso un’immagine più ampia.

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venerdì 7 ottobre 2011

LE DONNE DELL'ISLAM

Shirin Neshat tra foto e parole d'henné

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Le sue opere catturano il cuore, non solo lo sguardo, pietrificano la mente, colpiscono allo stomaco, generano un profonda attrazione viscerale per quel senso di raffinata bellezza e di poesia che esprimono. Shirin Neshat non è solo un artista, ma una figura esile ed elegante che da alcuni anni esplora la complessità delle condizioni sociali all’interno della cultura islamica, rivolgendo la sua attenzione in modo particolare al ruolo che in questa cultura hanno le donne. Nelle sue foto e nei suoi video osserviamo corpi velati, immagini intense e fortemente connotate.

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Corpi che vogliono esprimere , nel confronto tra le culture, le possibilità di intersezione, comunicazione, secondo la visione anticonvenzionale dell’artista nel tentativo di distaccarsi potentemente dai pregiudizi, tanto quelli del mondo Orientale quanto quelli del mondo Occidentale.


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“Il corpo è molto importante nelle mie opere, perché sono tante le cose che sono passate nella cultura islamica attraverso il corpo della donna, soggetto a ferree regole sociali, diventando contemporaneamente un corpo politico e il referente visivo dell’effettivo svolgersi di alcuni accadimenti”, dice l’artista e aggiunge: “L’arte è l’unica maniera che ho di esprimermi…il mio lavoro verte sull’ambiguità dell’Islam, sul dualismo fra una cultura che esalta le donne e un mondo femminile che viene oppresso perché le regole le fanno gli uomini.

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Credo di aver trovato il punto di incontro tra oriente e occidente. Ed è un riflesso della mia personalità, del mio stile di vita. I contenuti, e il linguaggio, sono quelli della poesia classica persiana. Però espressi per immagini. Il mio lavoro rappresenta la mia identità ibrida, con tutte le contraddizioni”.

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Nasce a Qazvin il 26 marzo 1957. Nel 1975 lascia l’Iran per studiare pittura alla University of California di Berkeley, nei 13 anni successivi i cambiamenti politici le impediscono di tornare in patria e ricongiungersi con la famiglia; dallo scoppio della rivoluzione (1979),  che depone il governo precedente per instaurare il regime dell’Ayatollah Khomeini, fino alla morte di Komeyni (1989).

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In questi anni termina gli studi e si trasferisce a New York, dove sposa il curatore coreano Kyong Park e collabora ai progetti promossi dallo Storefront for Art and Architecture. Torna in Iran per la prima volta solo nel 1990 e la distanza tra il proprio ricordo del paese e la realtà del dopo-rivoluzione ha su di lei un impatto dilaniante.

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L’artista è fortemente colpita dal nuovo stile di vita imposto dal regime, soprattutto alle donne (un esempio: la legge che nel 1983 aveva istituito l’obbligo delchador). Afferma lei stessa, in un’intervista del 1997, parlando del cambiamento avvenuto nel paese natale: “… è stato una delle esperienze più sconvolgenti della sua vita. Quando tornai ogni cosa sembrava cambiata. Sembrava che ci fossero pochi colori. Tutto era bianco o nero. Tutte le donne indossavano il nero chador. Fu uno shock immediato”.

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Ciò l’ha indotta a tornare spesso nel suo paese di origine, e ad interessarsi alla “questione della separazione dei sessi” ed alla sua “relazione con il controllo sociale”. Da questi viaggi, prende vita la decisione di dedicare il proprio lavoro alla riflessione sulle profonde differenze che separano la cultura occidentale, a cui è ormai assimilata, e quella islamico-orientale, e quella delle sue radici da cui proviene. L’opera di Shirin Neshat, pone in relazione la religione islamica, il femminismo, il rapporto fra i sessi, le censure di ordine sociale, il desiderio di espressione e la diversità.

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Tutto questo senza giudicare, anzi ridiscutendo le nostre certezze ideologiche. Le sue opere sono un varco di luce contro pregiudizi e contraddizioni.

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Fu questa esperienza ad ispirarle il primo apprezzato ciclo di lavori, “Women of Allah”,(1993-97): una serie di fotografie in bianco e nero, in cui l’artista si mostra coperta da un velo e con le parti del corpo, che la legge islamica accetta nude, (viso, mani e piedi) ricoperte di citazioni in farsi (la scrittura calligrafica persiana) di poetesse come Forough Farokhzad e Tahereh Saffarzadeh. Tracciate a mano, con penna e inchiostro di china, riporta versi d’amore spiega così la sua idea: “la grafia è la voce della foto”, è “una voce che rompe il silenzio della donna ritratta”.

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Per sottolineare il proprio personale coinvolgimento nei temi che tratta , l’artista decide di ritrarre proprio se stessa (sola o con altri) vestita con ilchador islamico. Le immagini sono “concise, sorprendenti”, scrive RoseLee Goldberg “ si caricano di nuovi significati, ben al di là delle intenzioni iniziali dell’artista”. Spesso Shirin Neshat vi appare mentre mostra un’arma da fuoco: è un elemento che rimanda indirettamente alla violenza della rivoluzione iraniana, e che accentua l’ambiguità delle immagini stesse.

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Dice l’artista:
“ La mia idea di emozione, credo si intuisca in Women of Allah . In questa serie di opere non ho cercato di entrare in merito all’aspetto politico del velo, ma piuttosto alla sua poetica, che era il campo che veramente mi interessava sin dall’inizio, l’idea di provare a guardare oltre la superficie. Per esempio, come fà una donna a relazionarsi con i mutamenti del mondo esterno quando c’è un velo tra lei e il mondo? Come il velo separa il privato dal pubblico, l’interno dall’esterno? Io ero molto interessata all’idea di visibile e invisibile, e anche come, alla fine, una donna può esprimere se stessa nonostante una tale limitazione”.

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Ed aggiunge: “Credo sia una caratteristica del femminile il non pensare a una visione dualistica dell’esistenza. Il gioco dei contrasti è molto più ovvio in Women of Allah che in altri lavori più recenti. La giustapposizione delle armi rappresenta la violenza come simbolo dell’immagine stereotipata dell’Islam del mondo occidentale. Tuttavia la complessità degli ideali spirituali della religione islamica è superficialmente ignorata. L’interesse per il velo nasce per me proprio dalla sua natura ambigua nella società Islamica”.

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Shirin Neshat con queste opere esposte in vari paesi del mondo in mostre personali e collettive, raggiunge presto la  notorietà internazionale, imponendosi come una delle giovani artiste più interessanti e rappresentative della sua epoca. Afferma lei stessa: “Ero in cerca di una nuova forma di linguaggio che permettesse flessibilità, ambiguità e un’ampia gamma di possibilità”.

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La preferenza data alla fotografia, piuttosto che alla pittura, risponde all’esigenza di una maggiore forza coinvolgente che la porterà ad approdare dopo il 1996 anche al mezzo del video. Proprio utilizzando questo medium affronta il tema delle prerogative maschili sull’autorità e sul potere, sulle strutture sociali e l’architettura stessa dei paesi mussulmani, raccontando i controsensi della società islamica riguardo al rapporto uomo-donna e individuo-collettività. Per la Biennale di Istanbul del 1997 gira a Istanbul “Shadow under the Web”, dove la protagonista è lei stessa coperta da un nero chador , mentre corre su 4 schermi in spazi diversamente caratterizzati che, legati rispettivamente al privato, al pubblico, al sacro e al naturale, sia dell’uomo o della donna.

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Questa intuizione viene ripresa e portata a compimento nella trilogia Turbulent (1998), Rapture e Fervor (2000) dove, diversamente dai lavori precedenti, l’artista ricorre ad attori e performer, per raccontare la contrapposizione tra uomini, rappresentati come i detentori del linguaggio verbale, della modernità (vestono in un’occidentale camicia bianca e pantaloni neri) e dell’autorità loro conferita dalla cultura; rispetto alle donne, private della parola ma non del suono della voce, legate alla natura e alla tradizione. Diversità espressa nella scelta cromatica, nell’uso nel bianco, il tutto istallato su due schermi. Con il primo video, prodotto dalla galerie Jérôme de Noirmont di Parigi e presentato in anteprima all’Art Institute of Chicago, l’artista si aggiudica il Leone d’oro alla 48a Biennale di Venezia. In questa opera nasce la collaborazione con la cantautrice Sussan Deyhim in  Logic of the Birds (2001-02), prodotto dallo storico dell’arte e curatore RoseLee Goldberg, che ottiene il premio del Lincoln Center Summer Festival nel 2002.

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Nell’opera Turbulent , Shirin ritorna spesso sul tema della sessualità nella società musulmana, inserendo come elemento portante la musica.
“Quest’opera”, dice l’artista, “è stata per me un’esperienza molto importante perché la musica è diventata un modo per ampliare le possibilità di collaborazione, non solo con i fotografi, ma anche con autori di altri ambiti. La musica è divenuta, per quel lavoro, uno dei mezzi per suggerire certe emozioni che io stavo provando e che volevo trasmettere. Uno spostamento mentale che tendeva ad un aspetto privato, un momento di intimità che lasciava momentaneamente da parte l’aspetto politico, nonostante il fatto che questa opera è estremamente carica di significati sociali. Questa è stata la tendenza costante nei miei ultimi lavori, una sorta di andamento in cui prelevo i miei dati dal privato, dalla mia sfera personale, più che dal collettivo.

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In Turbulent , la canzone maschile rappresenta la cultura e gli aspetti positivi che essa genera, la cantante donna rappresenta l’esatto opposto. In Iran, le donne non possono esibirsi in pubblico dopo la rivoluzione. In Turbulent si evidenzia una identità mista, parliamo di un uomo-donna dinamico, di un pieno complesso di emozioni represse: affetto, desiderio, sessualità, e come queste possano divenire tabù che agiscono negativamente su di te. Come vedi mi interessa molto esplorare una forma di comportamenti controllati che entrano in conflitto”.

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Dopo Soliloquy (1999), in cui analizza il distacco tra Iran e Occidente attraverso delle immagini di diverse architetture, Neshat realizza una seconda trilogia. Nei video Pulse, Possessed ePassage (2001),sviluppa magistralmente la propria poetica, denunciando l’errore di cadere in un’interpretazione specificatamente politica del suo lavoro, finora letto da molti critici occidentali solo come una denuncia dell’oppressione della donna in Iran e una resistenza all’autorità.
Ricorrendo al colore, Shirin Neshat rappresenta l’intima solitudine domestica delle donne attraverso una canzone d’amore cantata seguendo il suono della voce maschile trasmessa dalla radio (Pulse); il vagare in bianco e nero di una donna senza velo in una città orientale (Possessed, girato in Marocco); la dolorosa sepoltura di un bambino, a evocare il conflitto tra Palestina e Israele (Passage). La colonna sonora di Philip Glass, arricchisce il lavoro dell’artista basato molto spesso sulla contrapposizione di elementi opposti (uomo- donna, individuo-società, sessualità- religione). Neshat costruisce un originale linguaggio cinematografico, partendo dai lavori del cinema iraniano, e in particolare quello di Abbas Kiarostami (Teheran, 1940), , in cui la narrazione della vita interiore dei personaggi è affidata unicamente alla musica. L’opera Tooba (2002), girato in Messico con attori del luogo è legato all’11 settembre, il video sviluppa il tema del rifugio, questo viene rappresentato con l’immagine di una grande donna-albero, che lega l’idea coranica di paradiso con la venerazione sudamericana per la vergine di Guadalupe, assunta dai messicani quale simbolo di liberazione. L’artista gira il suo primo lungometraggio “Donne senza uomini”, tra il 2004 e il 2008 in Marocco,  ispirato all’omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur e realizzato con la collaborazione del filmaker Shoja Youssefi Azari (co-autore anche della sceneggiatura finale), suo compagno.

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Shirin racconta la sua esperienza con il video:
“Ho cominciato con la fotografia e poi sono passata al video. Non abbandono mai le cose che faccio finché non mi stanco. Così, girando i video ho scoperto il racconto di una storia per immagini. Insomma, mi sono innamorata della narrazione ed ecco il mio primo film. Infine, quello che mi piace al cinema è il fatto che si rivolge a un pubblico estremamente vario. L’arte parla a un nucleo esclusivo ed educato mentre il cinema parla a tutti.
Ci ho messo molto a fare questo passaggio perché stavo cercando un modo equilibrato. Dovevo allargare il mio pubblico ma senza perdere la mia dignità artistica. E vi assicuro che non è una cosa facile. Un conto è riuscire ad esprimere qualcosa che ha un valore artistico nei sei o sette minuti della durata di un video, un altro tipo di esperienza è raccontare storie e approfondire personaggi. Essere artisti e artisti commerciali allo stesso momento. Quando ci riesci è meraviglioso. Per questo sto cercando di andare oltre i tradizionali mezzi dell’arte quali la scultura e la pittura, per indagare i linguaggi multimedia, perché hanno una forza più coinvolgente. L’uso delle tecnologie è una delle intenzioni più stimolanti di questo momento, l’idea di realizzare sempre di più una contaminazione tra video, computer e corpo, come anche l’idea di far partecipare sempre di più il pubblico all’interno dell’opera. Quello che interessa a me è la possibilità di realizzare opere che siano il più possibile poetiche, opere in cui conta molto il fatto di esprimere delle emozioni, nonostante il fatto che toccano argomenti sociali, religiosi e politici”.

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Il film è ambientato durante il colpo di stato, guidato dagli americani e appoggiato dagli inglesi, che nel 1953 che depose il Primo Ministro democraticamente eletto in Iran, Mohammad Mossadegh, e restaurò il potere dello Shah. Apparentemente viene da chiedersi quale sia il valore innovativo di questa reinterpretazione, e per scoprirlo bisogna considerare come l’artista affronta il rapporto con il contesto e con i personaggi. Shirin narra le vicende intrecciate di quattro donne iraniane diverse per età, educazione e ceto sociale. Mahdokht è una donna che convive con la paura della sessualità ed il terrore di mettere al mondoun essere umano; Zarin è una prostituta per la quale nessun uomo ha un volto; Munis è una suicida che solo nella morte riesce a superare le convenzioni sociali uomo-donna; Farokh Legha, una vedova che cerca di affermarsi come artista. In una dimensione che oscilla tra la realtà e il sogno, Shirin Neshat fa rivivere sullo schermo ossessioni e paure che appartengono all’essere donna aldilà della nazionalità. Dice l’artista:
“Più in generale, col mio film voglio soprattutto mostrare, oltre alla condizione femminile, la convivenza degli opposti: realismo e magia, arte e politica, arte e cinema. E come la bellezza incroci la violenza… L’idea della bellezza è molto importante nella tradizione islamica. Tutta la società islamica ruota intorno all’idea della bellezza, lo stesso contatto tra l’uomo e il divino è stabilito attraverso un senso di bellezza, e la stessa ossessione di raggiungerla è qualcosa di molto intenso”.

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Più che mettere in discussione la tradizione, le protagoniste aprono gli occhi sull’effimerità dell’essere donna, definito da valori che non si sentono propri. Tale consapevolezza porta allo smarrimento di senso per la propria vita. L’artista con questo lavoro si aggiudica nel 2009 il Leone d’argento alla 66a Esposizione internazionale del cinema di Venezia per la migliore regia. Commossa, ricevendo il Leone d’Argento, Shirin ha lanciato un appello al popolo iraniano: “Prego il governo dell’Iran di dare al popolo quello che dovrebbe avere e cioè i diritti umani di base, la libertà e la democrazia. Vi prego, fate la pace con il popolo iraniano”. Donne senza uomini è un’opera composta da 5 installazioni video, proiettate in spazi isolati, compongono un unico film di una bellezza effimera e raffinata che ricorda hai nostri occhi che la narrazione cinematografica può essere anche questo genere di capolavori.

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Racconta l’artista: “Nel mio lavoro, l’immagine delle donne, della violenza, del chador e l’intero complesso della bellezza delle immagini, viene trasformato in una dimensione di confusione, e lo stesso discorso vale per l’uso di poemi di autori che hanno opposti credenze e opinioni…Non è mai stata mia intenzione prendere un direzione univoca, o comunque prendere posizione. Io non penso che sia interessante per un artista diventare giudice di cosa è bene e cosa è male o decidere quali culture sono nel giusto e quali no…A me non interessa stabilire chi ha ragione, io sono una straniera, sono un osservatore forestiero, e il lavoro che faccio è una combinazione di che cosa esperisco nella mia propria storia personale, che indubbiamente è molto legata a tutto questo.
Vorrei proseguire ciò che ho iniziato a proporre coi video, per dirigermi ancora di più verso il cinema e il video. Vorrei però riuscire a rendere più coinvolgente per il pubblico questo nuovo lavoro, in modo che esso possa anche parteciparvi in certo senso. Sento comunque di avere molto da dire sulle culture diverse, che ogni tanto possono apparire molto strane, molto lontane, ma che penso alla fine diverranno un insieme universale. C’è molto che deve essere ancora detto e che dovrà essere detto. Forse l’interattività sarà un buon mezzo per veicolare questi messaggi e soprattutto potrà aiutarmi a cercare le varie possibilità di trasmettere e tradurre questi messaggi, senza sminuire il loro profondo significato, rispettando il loro senso e, cosa ancora più importante, fare in modo che possano raggiungere molte persone, e fare si che possano essere compresi al meglio”.

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Contemporaneamente il nome di Neshat le sue opere fanno il giro del mondo apprezzate e s stimate, Shirin compare nella monografia After The Revolution: Women Who Transformed Contemporary Art, nata da un progetto della Dorsky Gallery di Long Island City (2007). Nel 2010 alcune delle sue foto e istallazioni vengono esposte al Centre Georges Pompidou; al San Francisco Museum of Modern Art e nella mostra Arte Y Politica: Conflictos Y Disyuntivas al Museo de Arte di Culiacán in Messico. L’artista continua il suo percorso artistico in viaggio per il mondo e a New York dove vive.

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“Quello che cerco di fare con i miei lavori”, scrive Shirin Neshat “è di uscire dalle ovvietà di discorsi su culture di cui si conosce, in fondo, ben poco. Ad esempio le interpretazioni del velo sono molteplici, comunque sia è un segno dei tempi iniziare a parlarne”.Fonte

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           Copyright Shirin Neshat
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