lunedì 24 maggio 2010

LA PITTRICE BUDDHISTA DI TANCH’ŎNG

Riportiamo un articolo dal sito corea.it sulla prima donna coreana, specializzata in pittura buddhista.
Per chi fosse poi interessato ad approfondire l’argomento dell’arte buddhista, su Wikipedia è disponibile una bella paginata di informazioni: ecco il link.
Park Jung-ja è la prima artista artigiana di tanch’ŏng (단청 丹靑) e di pittura buddista in Corea. Il tanch’ŏng è un tipo di pittura che usa i cinque colori base (rosso, giallo, blu, bianco e nero) caratteristici dei princìpi yin e yang. È normalmente associato ai disegni ricchi di colori dipinti sui manufatti di legno dei palazzi o degli edifici dei templi a scopi decorativi e per protezione dagli elementi atmosferici. In realtà, però, il tanch’ŏng abbraccia tutto lo spettro della pittura che usa queste tecniche.

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Park Jung-ja, la prima donna specializzata
nell’artigianato del tanch’ŏng e della pittura buddista

Il tanch’ŏng è una festa di colori che nasce dalla pazienza e dalla perseveranza. È un arcobaleno di colori vivaci, dove le gru danzano con i dragoni blu e d’oro, che si contorcono nelle nubi, giocando con le perle che esaudiscono i desideri. È il luogo dove un immortale taoista, accompagnato dalle sue amiche tigri, siede all’ombra dei pini e dove il Bodhisattva Avalokitesvara osserva i mortali con un sorriso benevolo.
Oltre ad essere un’esposizione dei più vivaci colori immaginabili, il tanch’ŏng è anche una manifestazione di fervore religioso e di riproduzione realistica della realtà della natura. Secondo la leggenda, gli uccelli erano così attratti dagli alberi di pino che Sŏlgo aveva dipinto su un muro del tempio Hwangnyŏng-sa, da cercare di farvi il nido.

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La predicazione di Vairocana, uno
dei lavori della pittrice Park Jung-ja

Questa tecnica pittorica non solo serve come decorazione dei templi e degli edifici buddisti, ma è anche nota per la riproduzione di immagini del Budda e dei Bodhisattva. È un tipo di pittura molto coreana. Tradizionalmente ad eseguire queste pitture erano i monaci dei templi, che formavano una società a parte, molto rispettata. Erano di solito monaci di fede provata e di grande disciplina, perché non era possibile produrre alcuna significativa pittura religiosa senza una profonda comprensione del buddismo. Siccome dipingevano icone buddiste, questi monaci venivano talvolta chiamati pulmo (madre del Budda), ma in effetti non veniva permesso ad alcuna donna di fare questi lavori, in quanto il solo pensiero che una donna potesse dipingere queste figure sacre era considerato un sacrilegio.
E tuttavia, questa professione considerata solo maschile viene sfidata con successo da Park Jung-ja, la prima donna che si sia dedicata al tanch’ŏng e alla pittura di immagini buddiste. Prima di votarsi a quest’arte, Park Jung-ja è stata madre di quattro figli e un’impegnata maestra elementare. Dopo essersi laureata e avere insegnato per otto anni a Naju, si decise ad abbandonare quel lavoro quando si trasferì a Seul. Appassionata di pittura fin dall’infanzia, cominciò a visitare gallerie e mostre e a occuparsi di pittura coreana nel tempo libero. Un giorno si imbatté in un dipinto che doveva cambiare la sua vita: si trattava di un’opera del monaco Manbong, il grande artista tanch’ŏng di quel tempo. Quel suo dipinto del Budda, affiancato da Bodhisattva e protetto dai Quattro re celesti (Lokapala), la fece restare a bocca aperta. Per Park, che era stata educata nell’estetica della pittura tradizionale degli spazi vuoti, i colori brillanti dei dipinti buddisti e la composizione tridimensionale furono una vera scoperta, un mondo completamente nuovo che catturò completamente il suo interesse.
Detto fatto, si mise subito alla ricerca di questo famoso monaco. Volgeva al tramonto quando arrivò al tempio Pongwŏn-sa nel distretto di Sinch’on a Seul in quel fatidico giorno del 1970. Le campanelle del tempio, mosse dal vento, risuonavano nella brezza della sera, creando l’illusione che non si trovasse nel centro della capitale, ma in un remoto recesso montano. Appena fu alla presenza del monaco Manbong, lo salutò dicendo: “Sono affascinata dalla sua pittura. La prego di accettarmi come sua studentessa.”

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Il monaco Manbong, maestro pittore di tanch’ŏng

Senza alzare lo sguardo dal lavoro al quale stava in quel momento accudendo, il monaco Manbong le rispose: “Mostrami come sai dipingere.”
La signora Park intinse il pennello nell’inchiostro di china e iniziò all’istante a eseguire un dipinto con rapidi tratti. Dopo averla osservata per un po’, il monaco le disse: “Torna fra una settimana.” e si rimise al lavoro, concentrato, senza più rivolgerle la parola.
Tale fu l’incontro fra il grande maestro di pittura tanch’ŏng, l’artista designato dal governo come “Proprietà culturale intangibile numero 48”, e Park Jung-ja, allora semplice casalinga che aveva da poco superato i trent’anni. Per Park fu un incontro insoddisfacente, perché non aveva ottenuto quello che sperava. Non tornò dal monaco dopo una settimana, ma subito il giorno dopo. Il monaco non le nascose che non era gradita. Le disse che questo non era lavoro per una donna e che pensava che le sue fisime le sarebbero passate col tempo.
Ma Park Jung-ja era decisa a non lasciarsi abbattere: era pronta a dedicare non pochi giorni o qualche mese per apprendere quell’arte, ma anni per costruirne i fondamenti, ed era risoluta a non abbandonare così facilmente la decisione presa. Pian piano anche il monaco si convinse che la donna aveva una volontà di ferro e cominciò i suoi insegnamenti. Per i primi tre mesi le fece dipingere col pennello linee diritte di spessore uniforme e separate le une dalle altre da spazi uniformi. Stare seduta a gambe incrociate a tracciare quelle linee risultava un vero tormento: bastava un attimo di distrazione perché la linea avesse un sussulto e il lavoro risultasse rovinato.

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Park Jung-ja al lavoro

Il passo successivo comportava il compito di copiare su carta di gelso i disegni originali che le venivano forniti, un compito che sembrava non finire mai. Dopo aver copiato un disegno almeno un migliaio di volte, le era permesso passare a quello successivo. Per apprendere le principali figure buddiste, come i Dieci Re dell’Inferno, i Quattro Re Guardiani, il Budda e i Bodhisattva, le ci vollero più di tremila fogli da disegno per ognuna delle figure.
La pittura buddista è un lavoro noioso, che richiede una pazienza incredibile. Questo lavoro risultò, come si può ben capire, estremamente faticoso non solo per lei, ma anche per la sua famiglia. Per lei non era una cosa da niente dedicarsi alla pittura quando aveva un marito a cui badare e quattro figli piccoli di cui occuparsi. Anche se oggi suo marito è uno dei suoi più ferventi sostenitori, allora non la pensava così. Dopo aver notato che la polvere si accumulava in tutti gli angoli della casa e che i figli a scuola prendevano brutti voti perché erano trascurati dalla madre che si dedicava alla pittura buddista, il marito le ordinò di “smetterla di andare al tempio”. Ma lei rispose che si sarebbe piuttosto rasato il capo e si sarebbe fatta monaca buddista. Bisogna dire che, in questo frangente, la sua più grande alleata fu sua suocera, una fervente devota buddista. La suocera finì per persuadere il figlio a pazientare, dicendosi disposta a fare tutti i lavori di casa mentre la nuora era al tempio a studiare pittura.
Il primo riconoscimento ufficiale della sua opera venne dopo quindici anni di duro lavoro, quando per il suo dipinto “Sutra della pietà filiale” ricevette il premio presidenziale alla Mostra di arti tradizionali del 1986 sponsorizzata dal Ministero della Cultura e dell’Informazione. In seguito si dedicò con ancora maggiore impegno a questo tipo di lavoro e fu nominata candidato come maestro artigiano in tanch’ong, anche grazie al fatto di essere stata allieva del monaco Manbong.

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Particolare dalle Trentadue incarnazioni di Kwanse-ŭm (Avalokitesvara).
Il Bodhisattva della misericordia è sempre presente alla sinistra del
Budda Amitabha

Park Jung-ja, il cui volto è oggi diventato simile a quello di un Bodhisattva dopo tutti questi anni in cui ha rappresentato il Budda con zelo ascetico, spiega che il processo di produzione di un dipinto buddista è ben più complicato di quanto non sembri. Comprende non soltanto il disegnare e il colorare, ma anche il tracciare nella tela e poi il rinforzarla con strati e strati di tessuto o di carta.
Dopo avere scelto il soggetto da dipingere, l’artista traccia sulla carta uno schizzo col carbone e poi delinea meglio lo schizzo con inchiostro nero. Questo è il disegno base. Deve essere conforme alle norme piuttosto nebulose di come debba essere tracciata la figura del Budda, che comprende 32 caratteristiche identificative e 80 particolarità. Per esempio, le labbra del Budda devono essere leggermente aperte, in un sorriso compassionevole, e gli occhi devono essere aperti, mentre il vestito deve essere drappeggiato sulla spalla sinistra.
Il passo successivo è quello di tracciare il disegno base sulla superficie del dipinto con oro o inchiostro. Il disegno del volto è il processo più importante e può essere eseguito solo dopo molta preparazione mentale ed emotiva. Per la pittura a colori viene usata tela di canapa, ramia, seta o cotone, mentre per la pittura in oro viene usata seta a velo sottilissimo. Questo tipo di tessuto si trova in vari colori: nero, indaco, blu, marrone e giallo, ma il nero e l’indaco sono i favoriti, in quanto mettono in evidenza al meglio la pittura in oro. Il tessuto viene disteso su una cornice e trattato con una dozzina di strati di colla di pesce mischiata con allume per ottenerne una superficie ben tesa.

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La predicazione di Amitabha. Questo tipo di dipinti viene
di solito posto sopra l’altare centrale nei templi buddisti

Dopo che il disegno base è stato tracciato sul tessuto, sul retro vengono incollati da cinque a dieci strati di carta di gelso, un foglio per volta, in modo da formare uno strato spesso tale che i pigmenti lo possano impregnare completamente e non svanire per lungo tempo. Lo spesso strato che così si ottiene non solo previene lo scolorimento, ma protegge anche il dipinto dal logoramento e dagli strappi.
Il passo successivo è quello di applicare i 13 colori che si ottengono mischiando i cinque pigmenti base secondo i princìpi yin e yang. Dopo avere applicato i colori, il dipinto riceve un tocco finale con fogli d’oro o polvere d’oro. Vi sono anche dipinti eseguiti interamente in oro, nel qual caso vengono applicati solo fogli d’oro e polvere d’oro.
È grazie all’infinita pazienza e perseveranza di artisti come Park Jung-ja che le pitture buddiste e l’arte tanch’ŏng dei templi buddisti sono ancora splendenti nei loro colori dopo centinaia d’anni. Perché i pigmenti vengono applicati non una sola volta, ma un numero grandissimo di volte, e non si scoloriranno anche se bruciati da una fiamma di candela, perché quando il pigmento esterno viene via, compare lo strato sottostante.
Park Jung-ja crede fermamente che i dipinti buddisti non sono un qualcosa che si può dipingere semplicemente perché lo si vuole, ma un qualcosa che ci si sente costretti a fare spinti da una forza inesplicabile. E oggi, ritiratasi nella propria città natale, ancora indaffarata con la propria pittura, sta lavorando al progetto di un museo che spieghi la storia del tanch’ŏng e della tradizione pittorica dei templi buddisti.
Fonte

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