sabato 24 luglio 2010

IL RINASCIMENTO NELLE SAVANE DEL CONGO

A Parigi una grande mostra sulla cultura fiorita a partire dall’’Anno Mille intorno al fiume che racchiude l’’anima dell’’Africa ed è stato amato dagli scrittori.

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Una delle sculture in mostra al Musée du Quai Branly

Il Congo, quando in aereo ti avvicini a Kinshasa, si disegna nitido e tinto di una lieve luce ocra: è il dorso di un gigante, grande come il mare, una specie di animale invincibile che si apre un varco nella foresta, senza sforzo, apatico, come se scivolasse dormendo fra la vegetazione. C'è un verso, magnifico, di Senghor: «Oh, Congo, disteso sul tuo letto di foreste, re dell'Africa sottomessa». Sottomessa? Guardandolo non provi l'impressione che questo vigore possa essere mai veramente domato. Sì, è vero: sulle rive di questo fiume interminabile si accampa l'Africa che soffre, che ti scruta con bambini scalzi e vestiti di stracci, donne dallo sguardo privo di orizzonte e uomini dagli occhi opachi come la cenere. E ancora fame, carneficine, bidonville, Aids, torme di profughi senza tetto, senza vestiti, senza medicine, senza acqua né pane. Dove sempre più a fatica, ogni tanto, il mondo deve correre in aiuto. Come in passato, tutto ciò è visto quale il riflesso di un'altra stella, il campo di azione di colonizzatori, affaristi, missionari, etnografi, organizzazioni umanitarie. E invece l'Africa esiste in sé e per sé, con boschi immensi e campicelli di manioca, giungle e deserti sterminati, fiumi, mostruose città malate. Una parte del mondo percorsa da una inquieta, violenta carica di elettricità. E da una antica Storia.
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Un fiume può avere un anima? Gli scienziati direbbero categoricamente di no; gli scrittori, Conrad in testa, dicono umilmente forse. Il Congo è un fiume letterario, la grande letteratura si affaccia sempre sugli abissi dell'anima, anche se ci mette di mezzo un paesaggio: qui Conrad viaggiava «all'indietro nel tempo verso i più remoti primordi del mondo»; Gide lo risalì «affondando lo sguardo nella notte tentatrice verso una vaga promessa cinta di lampi»; Moravia vi intravedeva «il mostro geografico, nel senso positivo di qualche cosa che è fuori di ogni regola». Europei, occhi europei in viaggio nel loro cuore di tenebra. Ma gli africani? Gli africani guardano in altro modo, come il poeta Emmanuel Congela: «È il fulgore primigenio del fuoco delle nostre origini».
Allora, per accendere anche noi questo fuoco e osservarne i riflessi e le ombre, non è sbagliato iniziare la navigazione a Parigi: sì, dopo aver attraversato senza palpiti la ben pettinata finta foresta che circonda le sale del museo del quai Branly. Dove fino a ottobre è aperta una splendida mostra dal titolo «Il fiume Congo». Curata da uno straordinario monaco belga, François Neyt, impavido benedettino settantenne filosofo a Lovanio, nato in Congo, che da 40 anni paga, studiandone l'arte, il tributo al continente che lo ha convertito. Settecento capolavori ci guidano in uno straordinario «rinascimento» africano, disperso non nei palazzi ma nelle foreste e nelle savane, vigilato da alberi immensi che stanno come placidi imperatori vegetali.


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masque à six yeux, dit "masque Lapicque" © musée du quai Branly photo Patrick Gries

È qui che a partire dall'anno Mille, mentre l'Europa si divincolava dalle paure dei secoli bui, l'Africa viveva uno degli eventi fondatori della sua civiltà: la grande migrazione dei popoli bantu dalle terre natie dell'attuale Nigeria verso Sud, aggirando dapprima l'immensa macchia delle foresta equatoriale, poi a tappe successive durate secoli e che nei margini estremi non sono ancora esaurite, risalendo appunto il Congo ha impregnato tutta l'Africa australe fino al lago Tanganica. Costruendo e distruggendo regni e imperi, lanciando le piroghe lungo il grande fiume, fendendo i vapori biancastri come una tenda pallida quasi opaca che si alzano dall'acqua, hanno creato una civiltà unitaria, fitta di echi, rimandi, credenze. La grande migrazione bantu ha lo stesso rilievo che per la civiltà europea hanno assunto la migrazione degli ari e dei germani: feconda e annientatrice, epica e vitale.

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statuette de gardien de reliquaire © musée du quai Branly photo Michel Urtado, Thierry Ollivier

Ecco nelle sale del Branly, per educare noi ottusi e inguaribili eurocentrici, i segni di questa epopea africana. Le maschere innanzitutto. Quelle dei Fang, dagli occhi come fessure, il breve sorriso enigmatico, coperte di una sottile pasta bianca. Bianco: il colore del mondo dei morti con cui, protetti da questo fragile scudo ligneo, si entra in contatto per carpirne la sapienza segreta. E quelle dei Lega e dei Bemba, dagli occhi invece enormi, come fissati in un effetto di trance. Perché è attraverso questi occhi che lo spirito degli antenati o dei geni della foresta viene a prender possesso dell'essere. Maschere con la bocca immensa, perché deve diventare preghiera, intercessione, benedizione. Ma anche condanna mortale, maledizione, stregoneria. O maschere dove la bocca non esiste affatto, per ricordare il divieto di rivelare ciò che è pericoloso segreto di iniziati, di stregoni, di sapienti. Tra loro quella che ispirò a Matisse il ritratto della moglie. E all'iniziò del Novecento stregò l'arte occidentale.

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masque anthropomorphe © musée du quai Branly photo Patrick Gries

E poi le statue degli antenati e dei difensori dei morti. Pervase di forza magica, ornate di conchiglie e di stoffe, irte di chiodi e metalli, armature che anticipano gli incubi cinematografici di un Medioevo post-industriale (il fabbro nel pensiero africano è un Prometeo che conosce i segreti del mondo ctonio), la superficie firmata con i segni, ambigui, di materie organiche. E poi le donne: come ha scritto Amadou Hampaté Ba, «il laboratorio dove il Creatore lavora direttamente, senza mediazioni, per forgiare una vita nuova». La mostra si chiude sulla serie folgorante di madri Phemba: assise con i figli tra le braccia, ma non li guardano. Ci scrutano tutte, orgogliose fino all'arroganza, soddisfatte, felici.
Dal quai Branly deve iniziare un altro viaggio, lungo il fiume di oggi. Nel Congo di oggi che festeggia, come il resto dell'Africa, il mezzo secolo della sua inutile indipendenza, dilapidando orgoglio e illusioni perdute. È il Congo non più del re canaglia, il sadico belga Leopoldo o di Stanley, colonizzatore implacabile e paranoico. Non c'è più Mobutu, con il fez di leopardo che uno spot televisivo mostrava mentre scendeva come un dio dalle nubi, che rubava e incoraggiava gli altri a rubare «a poco a poco». Ora c'è Kabila, che resta sempre fedele al Verbo ladronesco del messia congolese. Sulle rive occhi scuri di uomini in trappola che cercano febbrilmente una via di uscita hanno ancora bisogno delle loro antiche maschere e dei loro sortilegi possenti.

DOMENICO QUIRICO

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