lunedì 5 settembre 2011

WANGECHI MUTU

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È una artista keniana, trapianatata negli USA, ma molto quotata a livello internazionale. Le sue opere (sculture, schizzi in bianco e nero, acquarelli, collage) ruotano attorno al tema dell’identità della donna nera contemporanea e del suo immaginario contaminanto dai modelli occidentali.
Wangechi Mutu predilige la tecnica del collage, cioè un procedimento molto africano, costruito sul riciclo e sull'assemblaggio creativo, che si rivela particolarmente adatto a esprimere concetti come la frammentazione e la stratificazione. I suoi primi collage sono su carta. Poi cominciano i lavori realizzati su fogli di mylar, una pellicola in poliestere trasparente, che può ricoprire gli oggetti ma non aderisce mai a essi completamente né cambia forma.

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Wangechi non pone limiti all'assemblaggio: combina immagini tradizionali con pagine prese dal National Geographic e da altre riviste, cartoline africane con ritagli di riviste pornografiche, carta, glitter, scotch... Al centro di questi lavori c'è sempre il corpo femminile: rovesciato, dilatato, mistificato, amputato, riconfigurato sotto il segno dell'eterogeneità e del sincretismo.


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Il corpo femminile rappresenta per Wangechi un naturale punto di partenza. Perché lei è una donna e perché lo considera, oggi più che mai, "luogo" privilegiato dello scontro politico e culturale. «Tutto ciò che appare come massimamente desiderabile o massimamente deprecabile e peccaminoso continua a trovare nel corpo della donna la sua collocazione», spiega in una glossa a uno dei suoi collage più riusciti, Adult Female Sexual Organs (è stato esposto alla Saatchi Gallery di Londra tre anni fa, ma purtroppo non lo ritroviamo nella monografia). «Per questo il corpo femminile porta su di sé i segni della propria cultura più di quanto faccia quello maschile».

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Soffermarsi sulla costruzione di Adult Female Sexual Organs è molto utile per capire l'arte di Wangechi. Questo lavoro "comincia" dal disegno anatomico contenuto in un antico testo di medicina. Quell'immagine (gli organi sessuali di una donna adulta, appunto), però, non appare: è nascosta dalla fotografia di una donna bianca tratta da una rivista, una donna dai lunghi capelli e dal sorriso smagliante, ma di cui non si vede altro, perché è, a sua volta, "coperta" dal grosso profilo di un'africana, dallo sguardo intenso e le labbra turgide. Il tutto è fissato da grossi pezzi di scotch per pacchi, che finiscono con il simulare una fasciatura.

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Il frammento di donna bianca coincide con lo spazio del cervello della donna nera. Lo scotch sottolinea l'artificiosità dell'aggregazione, la relativa estraneità dei pezzi. È un'immagine che cattura in modo immediato per la plasticità, i giochi di colore, il senso: c'è un esterno nero fortemente condizionato da un interno (l'immaginario? il sistema di valori?) bianco e patinato, ma entrambi gli elementi s'innestano su una specificità solo intuita, che travalica però i concetti di razza ed etnia ed è, appunto, il femminile.
Il discorso artistico di Wangechi comincia, quindi, con la rappresentazione della condizione particolare della donna nera, in bilico tra Africa e Occidente, ma si trasforma, strada facendo, in una riflessione più ampia, inequivocabilmente femminista, e in una critica serrata del presente. Non si tratta però di un discorso lineare e neanche moderato. Le opere di Wangechi non lusingano, ma turbano e disorientano.
Mettono in scena gli aspetti più paradossali, osceni e disumanizzanti della cultura occidentale, veicolata molto spesso proprio dalle riviste femminili: l'ossessione per l'immagine e la magrezza, l'ostentazione della gioia e dell'appagamento, le follie della chirurgia estetica.


Hamar Woman Maasai Girl Afar Girl Hamar Woman, 2010  Collage and contact paper; 13 1/2 x 31 inches (34.3 x 78.7 cm) framed

Oltre le contrapposizioni
A Shady Promise (Damiani editore, 2008) contiene molti inediti ed è suddiviso in quattro sezioni ("A Thin Line" sugli schizzi; "The Pin-Up", collage su carta; "Hybrid", collage su plastica; "Body as Space", installazioni). La cosiddetta serie delle "Pin-Up" evidenzia alla perfezione come anche le donne nere siano state contagiate dalla cultura o, meglio, dalla follia dell'apparenza occidentale.
Le pin-up, infatti, sono donne dalla pelle nera, ritratte spesso in situazioni che potrebbero sembrare africane (accovacciate per pestare il miglio, in cammino con un figlioletto al fianco). Ma certi particolari del loro look, come i capelli lisci e biondi o i tacchi a stiletto, ci dicono che siamo assai lontani dall'Africa da cartolina.


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E l'esagerazione dei loro tratti, così come la presenza di elementi caricaturali presi di peso dal mondo animale o, addirittura, di protesi, ci avvisano che non ci troviamo di fronte a un lineare metissage. Le pin-up ridono, ballano e ostentano un'artificiale allegria. Hanno volti animaleschi o alieni, e talvolta protesi tecnologiche al posto delle braccia o delle gambe. Sono inquietantemente ibride.

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Questo aspetto si rivela ancor di più nella "serie" successiva della monografia, "Hybrid". Le protagoniste di questi lavori attraversano la vita in modo spavaldo e trionfante, ma sono tutte drammaticamente prive di qualcosa (chi delle mani, chi dei piedi) o disumanizzate da appendici mostruose.

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Cosa vuol dirci Wangechi attraverso queste figure? In una conversazione con Isolde Briemleier, curatrice, critica d'arte e suo interlocutore privilegiato all'interno del volume, è la stessa artista a spiegare: «Tento di raccontare gli elementi della spacconeria femminile e di sollevare interrogativi sull'identificazione etnica, attraverso la creazione di personaggi mitologici-futuristici che affrontino l'interminabile storia di questi dilemmi collettivi».

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Il suo racconto suggerisce una serie di domande e riflessioni che non possono e non devono restare confinate alla donna nera. E, infatti, le donne di Wangechi (è lei stessa a sottolinearlo) non sono solo le nere in bilico tra Africa e Occidente, ma tutte le donne. Anche se questo non si rivela subito a chi guarda i suoi lavori. «Dal momento che io sono nera, molti danno per scontato che il mio lavoro parli solo delle donne nere. Per qualche misteriosa ragione, che sarebbe interessante indagare, la tendenza a confondere l'artista e la sua opera si fa più marcata, se l'artista è nero», osserva con un pizzico di polemica. «Ma, in tutta franchezza, non credo che abbia molto senso, nel presente, insistere sulla contrapposizione tra donne bianche e nere».


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Le contrapposizioni binarie (bianco/nero, noi/loro, nord/sud...) sono il retaggio di un pensiero e di un linguaggio inadatti a raccontare la contemporaneità. Gli artisti dovrebbero, attraverso le loro opere, contribuire attivamente al superamento della logica binaria.

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Esemplare in questo senso è l'opera intitolata Riding Death in My Sleep, in cui vediamo una figura femminile accovacciata e inerpicata su tacchi vertiginosi e vestita con una tuta che aderisce come una seconda pelle.
Questa donna, languida e triste, appoggia le mani sul terreno, si tiene in equilibrio o forse oscilla, affacciata su una sfera di terra su cui crescono funghi e bizzarre teste di uccello. «Si tratta di un personaggio etnicamente non riconoscibile, anche se la sua gestualità fa il verso alla posa accovacciata comunemente utilizzata nel fotografare le donne nere», osserva Wangechi.
Un personaggio ibrido, suggestivo e sofferente, che trascende, appunto, i concetti di razza ed etnia.

Stefania Ragusa, da Nigrizia di novembre 2008

http://www.gladstonegallery.com/

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