45 ANNI FA
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria le truppe del patto di Varsavia reprimevano il generoso tentativo compiuto da Alexander Dubceck di riformare dall’interno il regime comunista. La notizia ebbe un’eco in tutto il mondo: sulla stampa, sulle televisioni e anche nei cinegiornali si analizzò con attenzione quanto era accaduto.
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria le truppe del patto di Varsavia reprimevano il generoso tentativo compiuto da Alexander Dubceck di riformare dall’interno il regime comunista. La notizia ebbe un’eco in tutto il mondo: sulla stampa, sulle televisioni e anche nei cinegiornali si analizzò con attenzione quanto era accaduto.
Li ha seguiti in silenzio, li ha visti invadere l'anima del suo paese e un giorno d'estate di vent'anni fa li ha visti partire. I russi in Cecoslovacchia. A ritrarli in ogni rito di potere, in ogni menzogna e a sorpresa in ogni debolezza è stata una donna, Dana Kyndrová, straordinaria fotografa ceca di cui è appena uscito lo splendido volume "Rituály normalizace", i rituali della normalizzazione. Una cronaca implacabile perché quotidiana, sovversiva perché antieroica, giusta perché composta e pietosa anche verso il nemico.Un racconto in bianco e nero per ricostruire gli anni dell'occupazione sovietica, dal 1968 al 1991, "un periodo di vuoto spaventoso – ricorda l'autrice in un incontro dedicato al nostro giornale – che solo un'ideologia morente come quella comunista poteva definire normale".
E' per sopravvivere a questa falsa normalità che è diventata fotografa?
Era il 1973, avevo diciotto anni e volevo diventare giornalista. Ma dal momento che entrare in un giornale voleva dire prostituirsi al regime, ho scelto di studiare francese. E contemporaneamente è arrivata la fotografia. Un vocabolario libero per gli occhi. Ci obbligavano a festeggiare il Primo Maggio, la fratellanza con l'Unione Sovietica, e in quelle interminabili manifestazioni io portavo la macchina fotografica. Quello che vedevo era una farsa: i ragazzi, i miei coetanei che inneggiavano alle conquiste di Lenin e subito dopo si appoggiavano esausti ai simboli del potere. Vivere nella menzogna logora. Tutti partecipavamo a queste cerimonie, tutti sapevamo che non potevamo fare altrimenti, e tutti eravamo contro. Era pura schizofrenia.
Ma come è riuscita a scattare queste immagini sotto lo sguardo dei leader della rivoluzione e dei loro cultori?
Presentandomi come un fotoamatore. E poi ero una ragazza e le donne non hanno mai rappresentato un pericolo nell'ideologia sovietica. Per loro ero invisibile.
Anche il suo lavoro è rimasto invisibile?
Non ho mai pubblicato nessuna di queste immagini fino alla Rivoluzione di Velluto, nel 1989. Ma anche i sovietici si erano imposti qualche censura. Mia madre mi diceva che quando era piccola i volti di Marx, Lenin, Stalin e poi di Klement Gottwald erano ovunque, invadenti, minacciosi. Ma dopo la rivolta del '68, dopo il sacrificio di Jan Palach, le autorità facevano più attenzione, evitavano di "irritarci" troppo e quei ritratti, compreso quello di Breznev, venivano esposti solo durante le manifestazioni. Poi, vigliaccamente, sparivano.
Il potere rimaneva distante, ma i suoi emissari invece erano ovunque. E nelle sue immagini questi sguardi terribili si intravedono nella folla.
Quando si censurano le parole, lo sguardo parla. Lo sguardo impaurito di due bambini, per esempio, che sapevano già riconoscere e temere un poliziotto della Milizia del Popolo, con quegli occhi duri e una copia di Rudé Právo, il giornale comunista, piegato nella tasca della giacca. E poi c'era lo sguardo perso dei piccoli pionieri, quello senza eroismo degli atleti delle Spartiachiadi, e quello rassegnato delle donne che trascorrevano metà della loro giornata in fila, davanti ai negozi in attesa di tutto, da un pezzo di carne alla carta igienica.
A un certo punto, però, sopra gli occhi di un ritratto di Lenin appare per caso il volto di Gorbaciov.
Nel 1987 Gorbaciov era venuto in visita a Praga, ma abbiamo dovuto aspettare ancora tre anni per buttare nel fuoco i simboli del comunismo e lo abbiamo fatto il Primo Maggio del 1990, sul piazzale di Letná. E allora abbiamo cominciato a guardare anche negli occhi dei soldati russi e abbiamo visto la loro povertà, la loro solitudine, estranei al nostro paese, e in fondo anche al loro, a quell'Unione Sovietica in fin di vita. Ho cominciato a fotografarli con la stessa tecnica di sempre – una donna non fa paura a nessuno – e nei primi mesi del '91 ho seguito le operazioni del loro ritiro: caserme, baracche, stanze vuote, scatole di cartone chiuse con lo spago e quelle partenze desolate alla stazione. Ma fino all'ultimo hanno voluto recitare la commedia e hanno organizzato un comizio d'addio, a cui naturalmente non ha partecipato nessuno di noi. I soldati invece erano lì, schierati a sentire le parole vuote del loro ufficiale e a leggere quella frase ridicola dipinta sul palco: "Partiamo, ma l'amicizia rimane".
Eppure i russi sono tornati e Praga è piena di coppie di sposi che scelgono il Ponte Carlo come sfondo per le loro fotografie. Ma cosa sa questa nuova generazione della vostra e della loro storia?
Nulla, del resto basta vedere i libri di storia russa. Oblio assoluto. Per questi ragazzi oggi conta solo la bellezza di Praga, ma è già qualcosa. Si sposano a Mosca e vengono qui, vestiti da matrimonio, a farsi le foto. Ieri arrivavano sui carri armati, oggi in limousine. Altri riti, altra normalità, per tutti.
Dana Kyndrová, Rituály normalizace, Kant, Praga, pagg. 176, euro 30
All images © Dana Kyndrová
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