- Gentile di Niccolò di Giovanni di Massi,
detto Gentile da Fabriano -
Non si
conosce la data di nascita esatta di questo pittore marchigiano, figlio di
Niccolò e di una Talia, originario di Fabriano, vissuto a cavallo fra il XIV e
il XV secolo. Tuttavia le informazioni sulla famiglia permettono di configurare
un'idea dei primi anni di vita di G., la cui data di nascita dovrebbe
ragionevolmente collocarsi fra il 1360 e il 1370.
Tra le
poche notizie certe si deve menzionare il chirografo, già noto al Milanesi
(III, 1878, p. 15) e datato 21 nov. 1422, che sancisce l'atto d'iscrizione
all'arte dei medici e degli speziali di Firenze, del "magister Gentilis
Nicolai Johannis Massi de Fabriani, pictor, habitator Florentie in populo Sancte
Trinitatis". Al di là della notizia concreta, però, lo scritto è utile per
stabilire con certezza paternità e ascendenze di G. in modo da permettere la
ricostruzione del suo ambiente familiare nel tentativo di far luce sulla
presunta data di nascita e sulla sua formazione artistica. Il nome completo del
bisnonno di G. dovette essere Massio o Mascio di Venutolo, abitante nel
quartiere di S. Biagio e iscritto all'arte dei guarnellari da considerarsi
certamente come la più importante di Fabriano dopo quelle dei cartai e dei
lanaioli. In altre parole, il mestiere di Massio era quello di tessere il
guarnello, antico tessuto che si usava per le vesti dei contadini per lavorare
i campi. Il nonno di G., Giovanni, risulta più volte tra i consiglieri della
Confraternita di S. Maria del Mercato della quale fu priore negli anni 1371,
1383 e 1390. Attivo almeno fino al 1397, Giovanni di Massio fu anche sindaco
del convento di S. Caterina in Castelvecchio, fondato da alcuni monaci
silvestrini e poi passato agli olivetani. Giovanni ebbe quattro figli, tra cui
Niccolò, padre di G., che risulta in un primo tempo priore della confraternita
nel 1382 (Sassi, 1923-24, pp. 22, 26) e otto anni più tardi è documentato
nell'ambito del convento di S. Caterina in Castelvecchio: una pergamena datata
16 genn. 1390 lo ricorda come consegnatario dei beni lasciati al convento da un
tal Ludovico di Ambrogio di Bonaventura. In quel medesimo documento risulta
citato anche il padre di Niccolò, Giovanni, in qualità di pio legato designato
dalla moglie di Ludovico. La figura di Niccolò ricompare, quale legato della
famiglia monastica fabrianese, al capitolo generale tenutosi a Monteoliveto nel
maggio del 1399 (Lugano, p. 318).
Se il
nonno di G., Giovanni, risulta ancora attivo nel 1397, si potrà immaginare di
porre la sua data di nascita verso il 1320; questo vuol dire che Niccolò, il
padre di G., non può esser nato prima del 1340, come sembra confermare la data
delnecrologium al 1400. Ne deriva che G. non può
essere stato concepito prima del 1360, con un decennio di scarto in avanti per
mancanza di documenti. La gran parte degli studiosi, infatti, colloca la data
di nascita di G. intorno al 1370, fatte salve le diverse opinioni di Zampetti e
di Donnini (p. 71) che, sia pure con molta prudenza, individuano l'anno utile
nel 1380.
Una
datazione al 1360 permetterebbe d'ipotizzare l'interazione fra il giovane G. e
Allegretto Nuzi, esponente di spicco insieme con Francescuccio Ghissi della
scuola fabrianese del secondo Trecento. Del resto, a una sorta di alunnato fra
G. e Allegretto aveva già pensato Amico Ricci (p. 146) aprendo un'ipotesi non
più frequentata. Morto probabilmente cinquantenne nel 1373, Allegretto Nuzi,
formatosi sul linguaggio pittorico di Ambrogio Lorenzetti, portò a Fabriano un
verbo artistico estremamente attento alle novità della pittura cortese, anche
veneziana.
I dati che
emergono dall'analisi delle notizie relative alla famiglia di G. permettono di
considerare l'artista come appartenente a un ambiente benestante e di dar
credito alla tradizione che voleva Niccolò letterato, matematico e astrologo.
Ora, il fatto che il padre di G. sia entrato nell'Ordine degli olivetani ha
spinto la critica a ritenere che l'artista da giovane abbia sofferto del
precoce abbandono del genitore (Sassi, 1924-25, p. 248; Zampetti - Donnini, p.
72), soprattutto alla luce di un'ipotetica datazione tarda dell'anno di nascita
intorno al 1380. Se invece si pensa a un G. nato nel 1360, avrebbe avuto
trent'anni quando il padre si decise a prendere i voti. D'altra parte, se G.
avesse sofferto della scelta paterna, difficilmente sarebbe stato così in buoni
rapporti con gli olivetani da spingersi al punto di farsi ospitare dalla
comunità romana di S. Maria Nova al foro Romano quando attendeva agli affreschi
lateranensi. Ricco e famoso, poteva tranquillamente prendere in locazione una
casa come aveva fatto a Firenze. Al contrario, doveva aver piacere nel
frequentare ambienti che erano stati quelli di suo padre, sia pure in città
diverse. Fatte queste premesse, appare particolarmente significativa un'ipotesi
avanzata da De Marchi (1998, p. 9), secondo cui la Madonna
col Bambino tra s. Nicola e s. Caterina, oggi conservata presso la
Gemäldegalerie di Berlino e proveniente dalla chiesa di S. Nicola a Fabriano
(Micheletti, p. 85), sia stata invece realizzata per il convento di S.
Caterina.
L'ipotesi,
attualmente priva di prove documentali, spiegherebbe, però, la presenza della
santa. Quella di s. Nicola, d'altra parte, avrebbe una sua giustificazione
nella figura dello sconosciuto committente il cui nome, però, doveva
verosimilmente essere Nicola o, meglio, Niccolò. Generalmente datata nel
decennio che va dal 1390 al 1400, la pala cadrebbe allora proprio nel periodo
in cui il padre di G. risiedeva nel convento di S. Caterina. Per quanto nulla
si sappia del committente, può essere affermato con certezza che doveva
trattarsi di una persona di cultura, altrimenti sarebbe difficile giustificare
la scelta di rappresentare gli angeli fra le fronde degli alberi con gli
strumenti musicali in mano, così da alludere agli uccelli nascosti fra gli
alberi e pronti a cantare. Per quanto un simile rapporto non costituisca una
novità per allora (Bussagli, 1991), tuttavia il percepirne il legame
significava dover avere dimestichezza con la patrologia (Gerolamo, Commentariorum
in Isaiam libri VIII et X, in J.P. Migne, Patr.
Lat., XXIV, col. 453 A) e con la lettura di Dante (Purgatorio, II, 38). Due
considerazioni che spingono a collocare il committente in ambito ecclesiastico.
A questi aspetti si aggiunga la notizia riportata dal nobiluomo e collezionista
d'arte veneziano Marcantonio Michiel (in Christiansen, p. 141) che così
descriveva una delle due tavole di G. da lui vedute nel 1532: "un ritratto
d'uno giovine in habito da chierico cun li capelli corti sopra le orechie, cun
el busto fino al cinto, vestito di vesta chiusa, poco faldata, di color quasi
biggio, cun un panno a uso di stola negra, frappata sopra el collo che discende
giuso, cun le maniche larghissime alle spalle et strettissime alle mani".
Ora, a parte la presenza della stola, questa è la descrizione del vestito del
committente della pala di Berlino che, perciò, appare essere un chierico. Lo
confermerebbe la presenza del simbolo del mondo stilizzato posto in terra
accanto a lui come rinuncia al secolo e riportato sul castone dell'anello.
L'ipotesi ulteriore, a questo punto, è che possa trattarsi del padre di G.,
Niccolò effigiato dal figlio. Oltretutto, corrisponderebbe anche l'aspetto
fisico di un cinquantenne. Se così fosse, la pala potrebbe rappresentare la
celebrazione dell'ingresso di Niccolò nel convento di S. Caterina Novella a
Fabriano e la pala sarebbe da datarsi ad annum al 1390. Va da sé che si è nell'incerto
campo delle ipotesi. Tuttavia, quel che è certo è che già dalle prime opere, G.
gravitava in ambito ecclesiastico e non è improbabile che al suo successo
abbiano contribuito i suoi parenti più stretti (padre e nonno).
Firmata
sulla cornice, la pala di Berlino denuncia influenze di tipo lombardo per
giustificare le quali si è pensato a precedenti viaggi nell'Italia
settentrionale. Li confermerebbe (De Marchi, 1998, p. 11) un'anconetta
raffigurante la Madonna col Bambino tra s. Francesco e s.
Chiara, attualmente conservata presso la Pinacoteca Malaspina a
Pavia, che sarebbe stata dipinta prima della tavola di Berlino. L'opera
proviene dal convento di S. Chiara la Reale, fondato da Bianca di Savoia madre
di Gian Galeazzo Visconti, sicché testimonierebbe del legame di G. con la corte
viscontea, ulteriormente confermato da un disegno a punta d'argento con il
ritratto del signore milanese (Parigi, Louvre, Cabinet des dessins). Siamo
tuttavia, anche qui, nel campo delle ipotesi, sebbene ritenere possibile una produzione
precedente alla tavola di Berlino può avallare una datazione alta dell'anno di
nascita di Gentile. L'unico dato certo e documentario che possediamo è comunque
costituito da un incarico, datato al 27 luglio 1408, da parte di Francesco
Amadi, collezionista veneziano, il quale pagò per una tavola "de depinzer
Maistro Zentil" la cifra di 27 lire e 10 centesimi, quasi il doppio di
quel che offrì a Nicolò di Pietro per un'altra "ancona" (Paoletti).
Il documento appare un punto fermo nella complessa cronologia di Gentile. A
quella data il pittore di Fabriano, ormai famoso (vista la differenza di
prezzo) era sicuramente a Venezia. Esistono però altre indicazioni. Nel 1405
Chiavello Chiavelli, signore di Fabriano legato alla Serenissima, acquistò
l'eremo di Valle Romita per il quale G. realizzerà l'Incoronazione della Vergine (Milano, Pinacoteca di Brera).
Non si
conosce il committente del dipinto di G.; Chiavello, però, morì nel 1412,
sicché non sarebbe difficile ipotizzare con il Christiansen (p. 39) che la prima
grande impresa di G. giunta fino a noi dovette essere dipinta in quel lasso di
tempo. Ora, se, a rigor di logica, è vero che la commissione del polittico,
come rilevano Zampetti e Donnini, sarebbe potuta continuare o addirittura
cominciare sotto Tommaso Chiavelli, figlio e successore del primo, è
altrettanto vero che nel 1414 G. risulta a Brescia e che in precedenza,
ipoteticamente dal 1409, doveva aver atteso ai distrutti affreschi di palazzo
ducale a Venezia, ricordati tanto da Fazio nel suo De
viris illustribus (Baxandall)
e da Francesco Sansovino che in proposito scrisse: "il quadro del
conflitto navale, fu ricoperto da Gentile da Fabriano Pittore di tanta
reputazione che avendo provisione un ducato il giorno, vestiva a maniche
aperte" (p. 325), ovverosia, vestiva alla moda. In definitiva si devono
sistemare le prime opere di G., realizzate dopo la tavola di Berlino, nell'arco
di tempo che va dal 1400 al 1408, mentre il polittico per l'eremo di Valle
Romita si data fra il 1405 e il 1412. Questo vuol dire che, in teoria, il G.
avrebbe potuto dipingere la grande impresa anche a Venezia e poi mandarla a
Fabriano. È infatti questa l'ultima ipotesi avanzata dalla critica (De Marchi,
1992, p. 16). Tuttavia, contro questa proposta c'è da chiedersi se non sia
stato proprio il polittico commissionato da Chiavello a determinare la piena
affermazione dell'artista e la conseguente lunga permanenza in laguna dove
arrivò già altamente quotato. Per converso la scena dell'Incoronazione della Vergine al centro del polittico rammenta
iconograficamente il medesimo soggetto di Paolo Veneziano (Venezia, Gallerie
dell'Accademia), anche se G. sposta in basso tutti gli angeli musicanti e
sostituisce quelli di Paolo con una ghirlanda di rossi cherubini che circondano
l'immagine di Dio Padre. Tuttavia, il senso teologico e filosofico della pala
di G. conservata a Brera resta il medesimo di quello insito nella tavola di
Paolo Veneziano (Bussagli, 1991). Firmata in oro su un cielo notturno, la
tavola centrale è chiusa da quattro scomparti laterali (due per parte) che
mostrano le effigi di S. Gerolamo e di S.
Francesco, che sicuramente alludono all'esperienza di meditazione
seguita dall'Ordine dei frati minori che vivevano nel convento, e quelle di S.
Domenico e S.
Maria Maddalena. Sopra, sulle cuspidi S.
Giovanni Battista nel deserto, l'Uccisione
di s. Pietro martire, S. Tommaso d'Aquino in lettura e S. Francesco riceve le stimmate. Al centro Amico
Ricci (p. 153) segnalava la presenza di una Crocifissione. Nel 1991
questa parte del polittico che occupava la cuspide centrale è ritornata sul
mercato antiquario ed è stata riacquistata dallo Stato italiano per la
Pinacoteca di Brera (Ceriana - Daffra).
A questo
medesimo torno di tempo appartengono altre opere dal soggetto consimile alla pala
centrale del polittico. Si ricordano in particolare le due Madonna
col Bambino e angeli musicanti conservate
rispettivamente a Perugia (Galleria nazionale dell'Umbria) e a New York (The
Metropolitan Museum of art), che sono affini al polittico di Brera anche da un
punto di vista stilistico; ancora a questo periodo potrebbe appartenere la
frammentaria Madonna col Bambino conservata nella Pinacoteca nazionale
di Ferrara.
La prima,
giunta fino a noi in migliori condizioni, doveva costituire il pannello centrale
del polittico realizzato per la chiesa di S. Domenico a Perugia. La tavola si
lega al clima del polittico di Brera anche per quel gusto naturalistico già
comparso nella Madonna di Berlino, ma che qui diviene
talmente prepotente da spingere l'artista a mescolare, nel trono su cui siede
Maria, fronde vegetali e architettura del sedile, con risultati particolarmente
suggestivi che, comunque, denunciano la conoscenza del mondo lombardo. La
tavola del Metropolitan riprende l'identica iconografia sviluppandone, però,
gli aspetti monumentali, ovverosia con una maggiore attenzione, nell'impianto,
alla tradizione fiorentina che ha indotto taluni (Micheletti, p. 87) a
considerarla a ridosso del periodo fiorentino. Tuttavia, l'assoluta identità
iconografica sembra escludere questa eventualità.
Le notizie
che abbiamo del soggiorno veneziano, al di là del documento del 1408, sono
indirette. È infatti ancora Sansovino (p. 147) a comunicare che G. era iscritto
a Venezia alla Confraternita dei mercanti, che abitava nella parrocchia di S.
Sofia e che per quella chiesa "vi dipinse la pala di San Paolo primo
heremita e di Santo Antonio", entrambe perdute. Zampetti e Donnini (p. 77)
tendono a riferire la notizia a un soggiorno precedente al 1408, ma senza alcun
fondamento. Altre indicazioni provengono da Marcantonio Michiel; il nobiluomo
veneziano, in grado, per la sua posizione, di visitare le collezioni degli
altri patrizi presenti nella Serenissima, racconta di aver visto il ritratto di
due uomini, dipinti di profilo su fondo nero, la cui somiglianza faceva
ritenere che fossero padre e figlio. L'attività di G., perciò, dovette essere
particolarmente felice a Venezia dove verosimilmente realizzò opere come la Madonna
col Bambinoe due angeli conservata
a Tulsa (Oklahoma), nel Philbrook Art Center, considerata, tuttavia, di bottega
da De Marchi (1992, p. 101). Al soggiorno lagunare va poi sicuramente ascritta
la Madonna col Bambinoconservata al Museo civico di
Pisa.
Talora
attribuita al periodo bresciano e più spesso a quello fiorentino (De Marchi,
1992, p. 189), la tavola si pone invece come prototipo per scelte iconografiche
e stilistiche successive. Le evidenti affinità con la Madonna dell'Adorazione dei magiagli
Uffizi, vanno invece lette come il reimpiego del modello veneziano. L'elemento
decisivo per una simile riconsiderazione risiede nella presenza nell'aureola
della scritta in caratteri cufici "la illah ila Allah" ("non c'è
altra divinità al di fuori di Dio"). In ogni modo, al di là della
decifrabilità della scritta e fatto salvo il suo dichiarato carattere
arabizzante, resta evidente che un'inserzione culturale così potente in
un'immagine sacra poteva dirsi rischiosa visto che in quegli stessi anni
Giovanni da Modena (Giovanni Falloppi) sistemava Maometto nell'inferno della
cappella Bolognini in S. Petronio a Bologna (1408-20). Pertanto, una simile
scelta si giustifica solo se il riferimento visivo appare inequivocabile e
altrettanto forte. Collocata nell'antica cattedrale veneziana di S. Pietro di
Castello, dove tutt'ora si trova, fin dal XIII secolo, fa bella mostra di sé
quella che veniva considerata la più importante reliquia di S. Pietro, a parte
i tesori romani. È la cosiddetta cattedra che si credeva l'apostolo avesse
utilizzato durante il suo soggiorno ad Antiochia, prima di trasferirsi a Roma.
Naturalmente si tratta di un pastiche medievale che utilizza una stele
selgiuchide dell'XI secolo decorata da una splendida scritta cufica. In ogni
modo, la cattedra, trafugata nel corso delle prime crociate, "per valore
evocativo equivale a quella romana" (F. Gandolfo, in Enciclopedia
dell'arte medievale, IV, Roma 1993, p. 504; V. Strika, La
"cattedra" di S. Pietro a Venezia. Note sulla simbologia astrale
nell'arte islamica, in Annali dell'Istituto universitario
orientale di Napoli, XXXVIII [1978], pp. 67-181). La sistemazione
della scritta coranica nell'aureola della Vergine dipinta da G. (che oltretutto
morfologicamente ricorda la cattedra), perciò, si giustifica soltanto in
quest'ottica. In altre parole è come se l'artista assimilasse Maria alla cathedra
Petri e quindi alla
Chiesa stessa. Non sarebbe certo sufficiente a spiegare una scelta così forte
la sola voglia di esotismo dei Fiorentini dovuta ai contatti con l'Egitto e con
Tunisi (Aud, pp. 250-253).
Tuttavia,
la grande impresa realizzata da G. a Venezia furono i ricordati affreschi di
palazzo ducale che andarono distrutti quasi immediatamente. A parlarne è Fazio
che, nel suo De viris illustribus, ne
rappresenta la notizia più antica. Non si hanno riscontri contrattuali,
tuttavia è assai verosimile che gli affreschi fossero conclusi prima del 1414
quando G. andò a Brescia a dipingere la cappella per Pandolfo Malatesta. Sono
stati Zonghi (1908), Chiappini di Sorio (1973) e Christiansen (1982) a dare una
lettura critica dei documenti di Brescia portati a Fano quando i Malatesta
persero la signoria della città lombarda. Nonostante la pressocché assoluta
perdita delle opere bresciane di G. (che attese alla decorazione del broletto,
detto "cappella di Pandolfo", e realizzò due "ancone" per
Carlo Malatesta e per il pontefice Martino V, ospite per un breve periodo di
Pandolfo), la documentazione raccolta permette di ricostruire l'attività
dell'artista, i suoi spostamenti fra Venezia, Ferrara, Mantova e Firenze per l'acquisto
dei materiali, oltre che altri aspetti della sua esistenza. Nel giugno del
1416, infatti, risulta battezzata una bambina figlia di G. dall'arciprete
maggiore di Brescia (Chiappini di Sorio, p. 23), anche se non si hanno notizie
di un matrimonio dell'artista, né dei suoi rapporti sentimentali. Nel 1985, nel
corso di lavori di restauro del broletto che oggi ospita la prefettura, sono
riemersi frammenti di affreschi attribuibili a G. che costituivano la
decorazione delle lunette. Si tratta di vedute di città e di una Resurrezione frammentaria sistemate nel sottotetto
(De Marchi, 1992, p. 98). Il passaggio di Martino V (Oddone Colonna) da Brescia
sollecitò l'artista a lasciare la città lombarda per recarsi presso la corte
pontificia. Per questo motivo G. fece richiesta (con documento autografo
conservato nella sezione di Archivio di Stato di Fano e più volte pubblicato)
di lasciare il servizio di Pandolfo Malatesta. Così, il 18 sett. 1419, egli
richiese un salvacondotto per partire da Brescia "per octo persone et octo
cavalli" (Christiansen, p. 160). Il documento è naturalmente importante
perché testimonia l'agiatezza e la familiarità di rapporti con i potenti di
allora che G. aveva raggiunto. L'indicazione del seguito di "octo
persone" lascia aperta inoltre la possibilità che fra quelle ci fosse
anche Iacopo Bellini che G. aveva dovuto conoscere a Venezia e che ora stava a
bottega di G., come ricorda Sansovino (p. 54: si veda anche Zampetti - Donnini,
p. 78). Il cambiamento di programma del papa che si fermò a Firenze, però,
permise al pittore di tornare a Fabriano, dove due documenti pubblicati da
Zonghi (1908, p. 138), datati al 23 marzo e al 6 apr. 1420, non solo
testimoniano della presenza dell'artista, ma offrono l'immagine di un G. molto
attento alla gestione dei propri interessi dal momento che si fa esplicita
richiesta a Tommaso Chiavelli di essere esonerato dal pagamento delle tasse,
"ab oneribus comunis".
È a questo
fuggevole intermezzo fabrianese, fra il settembre del 1419 e l'aprile del 1420,
che la critica riferisce due opere importanti come l'Incoronazione della Vergine del Paul Getty Museum di Los Angeles e
il S. Francesco riceve le stimmate della Fondazione Magnani Rocca
(Traversetolo, in provincia di Parma). È molto probabile che siano le due facce
di uno stendardo processionale nel quale G. riaffrontava temi a lui cari,
entrambi presenti nel polittico di Valle Romita. Tuttavia, adesso l'iconografia
dell'Incoronazione,
rutilante di ori e di stoffe preziose, ha pesantemente risentito del soggiorno
veneziano, mentre il S. Francesco mostra nell'ombra proiettata sul prato
del frate che accompagna il santo una sensibilità naturalistica che trova
riscontro, come ha notato giustamente De Marchi (1992, p. 105), soltanto nelle
miniature assai più tarde di Barthélemy d'Eyck (Livre du coeur d'amour épris: Vienna,
Österreichische Nationalbibliothek).
A partire
dal 6 ag. 1420 G. viene documentato a Firenze dove risulta pagare un affitto,
fino al 24 ottobre di quell'anno, per una casa a S. Trinita; l'affitto fu
rinnovato il 24 agosto dell'anno successivo fino al 2 ott. 1421. Il 10 nov.
1422 G. effettua un altro pagamento per la medesima casa e undici giorni più
tardi risulta iscritto all'arte dei medici e degli speziali di Firenze. Era
iniziato il periodo più proficuo dell'attività artistica di G., o meglio quello
che ci è giunto più intatto perché, come si è visto, ben poco si è salvato dei
grandi cicli pittorici di Venezia e Brescia, nulla rimarrà di quelli di Siena e
di Roma e assai poco di Orvieto. Questo vuol dire, come più volte ha rilevato
la critica, che quel che oggi consideriamo il capolavoro di G., sarebbe certo
parso meno di spicco se si fosse mantenuta intatta l'intera produzione
dell'artista. Firmata e datata 1423 sulla cornice sopra la predella, la pala
con l'Adorazione dei magi (oggi conservata agli Uffizi) fu
pagata ben 150 fiorini da Palla Strozzi (Christiansen, p. 163); doveva essere,
infatti, la glorificazione della famiglia Strozzi e campeggiare al centro della
cappella omonima nella chiesa di S. Trinita, oggi ridotta a sagrestia.
Raffinatissima
nell'esecuzione, rutilante di ori e di colori, la grande tavola può essere
considerata la summa delle precedenti esperienze di
Gentile. Non solo, ma come ha giustamente notato De Marchi (1998, p. 25), la
cultura figurativa che confluisce nell'opera mescola elementi nordici - come
l'impiego dell'arco inflesso, veneziano - e fiorentini, quali l'utilizzo dalla
tripartizione ad archetti pensili. G. dovette aver avuto voce in capitolo anche
in questa fase della progettazione del manufatto. Altrimenti, come ancora
rileva De Marchi, non si spiegherebbe la scelta di realizzare le superfici per
le specchiature pittoriche dei pilieri così strette. Inutilizzabili per la
canonica raffigurazione di santi, esse dovevano già prevedere la decorazione
floreale che G. vi realizzò successivamente dando sfogo a quella sua
sensibilità naturalistica di stampo lombardo che era venuta fuori, a più
riprese, nel corso della sua lunga carriera. A questo proposito, poi, non si può
fare a meno di cogliere delle affinità con i repertori figurativi di Giovannino
de' Grassi, come il celebre foglio con il leopardo in giardino conservato nella
Biblioteca civica di Bergamo (cod. VII, 14, c. 17r), oppure con il foglio
erratico di Michelino da Besozzo che rappresenta un'Adorazionedei magi e altre figure conservato all'Albertina di Vienna (n.
4855r). Non diversamente sono da rilevare consonanze con opere quale l'Adorazione dei magi di Stefano da Verona (Milano,
Pinacoteca di Brera), anche per la scelta di rappresentare il tema venatorio
all'interno del soggetto in questione. Una scelta che implica un preciso
riferimento all'Historia trium
regum scritta da
Giovanni da Hildesheim, verosimilmente fra il 1364 e il 1376, e che ebbe,
proprio grazie a G., una notevole fortuna dal momento che venne ampiamente
ripresa da Benozzo Gozzoli nel Corteo dei magi di palazzo Medici Riccardi (M.
Bussagli, Implicazioni astrologiche nel Corteo dei
magi diBenozzo Gozzoli…, in Storia dell'arte, 1998, nn.
93-94, pp. 183-197). G., infatti, enfatizza il tema della caccia rappresentando
tanto la caccia con i ghepardi espressamente citata nel testo di Giovanni da
Hildesheim, quanto quella con il falcone di tradizione più occidentale. Nella
realizzazione di queste scene, poi, G. sfoggia uno stile decisamente lombardo.
Diverso è il discorso per la figura della Vergine che riprende chiaramente il
modello di quella conservata a Pisa. Ma la raffinatezza di un'opera come l'Adorazione dei magi non si ferma soltanto alla scena principale.
Basti osservare i tre tondi sulle rispettive cuspidi che raffigurano, da
sinistra, un Angelo annunciante, il Cristo
benedicente, la cui mano è l'evoluzione prospettica di quella del S.
Nicola della pala di
Berlino, e la Vergine intenta alla lettura.
L'Angelo annunciante presenta una particolare iconografia,
essendo stato rappresentato sotto forma di serafino con sei ali secondo una
tipologia diffusa in area anglo-tedesca e prontamente ripresa da Pellegrino di
Giovanni in un S. Michele arcangelo (Boston, Museum of fine arts: De
Marchi, 1992, p. 125) fino a non troppo tempo fa attribuito allo stesso G.
(Micheletti). Una speciale attenzione va poi dedicata alla predella della
grande tavola fiorentina, in cui sono raffigurati la Natività, la Fuga
in Egitto, la Presentazione al tempio. In
particolare, come ha rilevato il De Marchi (1992, p. 157), le atmosfere brumose
della Fuga in Egitto che
si addensano sul castello in lontananza e che vengono fugati dal sole nascente,
ritorneranno nelle opere più tarde di V. Foppa, a dimostrazione della grande
capacità d'influenza dell'arte del maestro fabrianese.
Il
soggiorno fiorentino di G., oltre che dalla creazione di altri capolavori, fu
caratterizzato da un episodio pubblicato da Adolfo Venturi per la prima volta
(1896, pp. 10-14). Il documento, conservato nell'Archivio di Stato di Firenze,
infatti, racconta del litigio di Iacopo Bellini, il pittore veneziano allievo e
aiuto di G. (in onore del quale chiamerà il proprio figlio), con un tal
Bernardo figlio di un notaio. Il ragazzo si divertiva a tirar sassi nella corte
della casa fiorentina di Gentile. Dal momento che, nonostante gli avvertimenti,
Bernardo seguitava a disturbare arrecando danno alle "scultitia et picture
maxime importantie" che vi erano conservate, Iacopo reagì bastonando il
ragazzo. Ne scaturì un processo che tuttavia si concluse nel 1425 con una
pacifica composizione. Nel maggio di quello stesso anno G. firmò il Polittico Quaratesi; oggi smembrato
fra gli Uffizi e la National Gallery di Londra dove la Madonna
col Bambino è in
deposito presso Hampton Court Palace, mentre la predella con le Storie
di s. Nicola sono
divise tra la Pinacoteca Vaticana e la National Gallery di Washington.
Commissionato
per la famiglia Quaratesi e destinato alla cappella maggiore di S. Niccolò
sopr'Arno, il polittico è a parere di alcuni (De Marchi, 1992 e 1998) la
seconda versione di un'opera (Firenze, Deposito delle Gallerie fiorentine) che
ci è pervenuta, nella prima redazione, assai danneggiata dall'incendio del
1897. Per quanto proveniente dalla medesima S. Niccolò appare difficile
ipotizzare che sia stato eseguito per quella chiesa, visto che in nessuno degli
scomparti compare la figura del santo. In ogni modo, la seconda versione del
polittico denuncia ampiamente l'influenza dell'ambiente fiorentino e di
Masaccio in particolare, come appare dalla Madonna con il Bambino e angeli conservata a Londra, sistemata in una
sobria scatola prospettica. Proprio come accade alla Madonna
con il Bambino, i ss. Lorenzo e Giuliano della Frick Collection di New York,
che giustamente si considera prodotta nel corso del soggiorno a Firenze. Del
resto, lo spregiudicato impiego della prospettiva nelle scene della predella
del polittico (e in particolare nelS.
Nicola placa la tempesta dove
esiste uno scorcio dal basso), rende palpabile fino a che punto G. avesse
assorbito la lezione del Quattrocento fiorentino.
Sigismondo
Tizio nella sua Historiarum Senensium (Christiansen, p. 137) racconta che G.
fu a Siena per dipingere sulla facciata del palazzo dei Notai una Madonna
col Bambino, s. Giovanni Battista, Pietro, Paolo e Cristoforo. È
questa l'unica notizia che ci rimane, sicché in mancanza dell'opera la critica
si dibatte fra l'ipotesi che si trattasse di un affresco o di una tavola.
G. fu
inoltre attivo a Orvieto come documentano i pagamenti dell'Archivio dell'Opera
del duomo (Venturi, p. 16; Christiansen, p. 167) e un frammento dell'affresco,
recentemente riscoperto e oggi completamente restaurato. L'opera, che rappresenta
una Madonna col Bambino, è particolarmente
importante perché nella presenza dell'angelo trasparente che s'intravede
accanto al sontuoso sedile si può trovare una rarissima interpretazione
pittorica del messo divino quale essere di luce. La soluzione adottata da G. è
la trasposizione, per così dire "in chiaro", con la tecnica
dell'affresco delle immagini angeliche che compaiono sul fondo oro dellaMadonna col Bambino della Galleria nazionale di
Perugia. Anche qui, infatti, i messi divini che si scorgono con difficoltà
sulla tavola devono considerarsi quali impalpabili esseri di luce. G.,
nell'affresco di Orvieto, è il primo a dare di questo profondo concetto
teologico un'interpretazione naturalistica.
Tuttavia,
la grande impresa di G., della quale però - purtroppo - non rimane praticamente
più nulla, dovettero essere gli affreschi per S. Giovanni in Laterano dove
l'artista è documentato dal gennaio del 1427. A Roma G. giunse dopo esser
ripassato da Siena (ottobre 1426) per completare la "Madonna dei Notai".
Il suo arrivo aveva lo scopo di soddisfare la promessa fatta a Martino V che lo
aveva invitato quando, ben otto anni prima, lo aveva visto dipingere per
Pandolfo Malatesta. È ancora Fazio (Baxandall, p. 100) a darci notizia
dell'impresa romana, di cui afferma che i busti dei profeti sembravano di
marmo. Un disegno (Berlino, Staatliche Museen, Kunstbibliothek), realizzato da
F. Borromini, autore del riassetto della basilica voluto da Innocenzo X, mostra
quale dovesse essere la composizione degli affreschi poi continuati - ma non
conclusi - da Pisanello per la sopravvenuta morte di Gentile. Di tutta
l'impresa si conserva oggi soltanto il frammento di una modanantura e di un
fregio sito nell'intercapedine fra il cinquecentesco soffitto ligneo di Daniele
da Volterra e la parete.
Non si
conosce l'esatta data di morte di G., che doveva essere però avvenuta entro il
novembre del 1428, dal momento che il 22 di quel mese la nipote accettava
l'eredità "dicti magistri Gentilis […] lucrosam et non dannosam",
secondo quanto recita un documento pubblicato da Zonghi (1898). Curatore
testamentario fu lo zio di Maddalena, Onofrio di Giovanni Massi. Della tomba di
G. resta soltanto l'epigrafe rintracciata da D'Ancona (1908) in un codice della
Biblioteca Laurenziana di Firenze
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