giovedì 15 aprile 2010

ALMA HABANERA

Cuba, Habana Vieja

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Fisso l’orizzonte dell’Oceano che risucchia il sole accucciato sotto nuvole fucsia, rosa, dorate. Dal muretto osservo il crepuscolo di una giornata vissuta intensamente. C’è un vento rapido e imprendibile che arruffa i capelli e spinge le onde sui massi sotto le gambe penzolanti. Spruzzi di balena scavalcano il parapetto del Malecòn lasciando specchi di mare sul boulevard.

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Bionda bellezza da fiaba, prodigio di luce riflesso sull’acqua. L’ambra del tramonto cattura fatiscenti palazzi sul lungomare. Tetti di rossi mattoni, balaustre in ferro battuto. Ferite mai curate che hanno sbriciolato intonaci del barocco ispanoamericano. Consunte facciate logorate dal tempo, dal vento e dall’embargo.

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E’ sempre così, il tramonto sul Malecòn sotto una gazzarra di gabbiani. Eppur diversa è l’emozione. Stati d’animo, pensieri, ricordi. Cala il sole di fronte al proscenio della sfilata di balconi criolli, panni stesi, serrande intagliate, muri pastello. Si accendono le luci sul lungomare habanero, più di dieci chilometri dalla torre della Chorrera fino al Castello de la Punta. Un serpentone grigio con sfumature rosse e blu affiancato dal basso muretto. Semplice cornice senza palme.

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Se ne vanno pescatori, turisti, innamorati. Anche quel gruppo di ragazzi con la chitarra che ascoltavano musica d’oltre oceano dalle macchine con le portiere aperte. Di giorno li trovi nell’Habana Vieja, già ricettacolo dei peccati capitali degli anni Cinquanta. Nei vicoli da carrozze, dietro le “guardavecinos”, finestre dai vetri colorati.

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Li trovi in calle Obispo, proprio nel cuore della città, dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Nel Parque Central coi palazzi dell’Ottocento insieme ai turisti. Tanti, troppi. Nel moresco “foyer” dell’Hotel Inglaterra. Di fronte al Capitolio National. In Paseo del Prado con l’ art nouveau e decò, i lampioni in ferro battuto. La più bella passeggiata di tutta l’Habana.

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Non li trovi nel parco adiacente al Museo della Rivoluzione. Conoscono bene il Granma agli ormeggi in un mare artificiale di vetro. Al cabinato con cui Fidel Castro e Ernesto Guevara giunsero a Cuba nel 1956 per lanciare la rivoluzione, gli habaneri preferiscono le strade, i mercati, le piazze come quella della Cattedrale. Qui vendono prodotti artigianali mentre da “El Patio” si spande profumo di “pierna asada” e “ropa vieja”.

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Nel Vedado, antico quartiere in epoca coloniale vietato alla gente di colore, la Rampa sale sulla 23ma strada che straripa di vita “dia y noche”. Molti giovani s’incontrano davanti all’Univesidad de la Habana dove ancora si parla della lotta studentesca contro Machado e Batista e nel contempo si disertano le lezioni di filosofia.

La propaganda turistica ammette volentieri certe radici di parentela con “gentiluomini di ventura” col marchio nero che rubavano ai ricchi per donare ai poveri. Nel ‘500, con le navi che attraccavano nel porto arrivarono ricchezze e schiavi, oro e malattie, vino e polvere da sparo.

Nelle fortezze dell’Habana, La Real Fuerza, San Salvador de La Punta e Los Tres Reyes del Morro c’è la storia di un’epoca d’arrembaggi. Qui, giovani artisti espongono opere d’amore e ombra. Dai contenuti anticonformisti, attirano fulmini burocratici. Ma non fanno male.

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“L’antico boulevard del nuovo mondo” entra nell’anima. Non smetto di scrutarlo, respirarlo. L’Habana, città di mare ma non protesa verso il mare. Al contrario, è l’Oceano che la vuole conquistare senza riuscirci, si accanisce contro la battigia spinto dai “notes”, i venti del nord.

Immagine viva di colori sbiaditi e scortecciati delle case coloniali con le colonne rosicchiate dal tempo e dalla salsedine. Sotto i portici, vociare di ragazzi che rincorrono palloni. Sulla strada, altri con i rollers skates si aggrappano alle borbottanti Buick, Cadillac e Plymouth. Tutte rimesse a nuovo o quasi. Ingegnosi meccanici, gli habaneri.

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Ma soprattutto “salseros, soneros, rumberos y trovadores”. Donne, uomini, ragazzi e bambini hanno il passo di chi ha salsa e rumba nei fianchi. Persino in bicicletta è uno zizzagare con la musica che scorre nelle vene.

Musica viva all’Habana Vieja, sulla strada, nelle cantine. Swingata da menestrelli. Mossa dal romantico bolero della Nueva Trova. Colte poesie cantate e ballate, improvvisate dai soneros. Sassofoni, trombe, percussioni e chitarre. Languide melodie e viscerale sound caraibico. Musica dentro.

Quindici anni, bermuda neri e una t-shirt viola scolorita dal sole. Avanza quasi ballando Rafael, scugnizzo cubano dalla pelle color cannella sotto un’arruffata chioma di biondi capelli. Arriva puntuale quasi avesse l’ora in testa. E’ sabato sera e c’è tutto un mondo nell’Habana Vieja. Suoni e “Santeria” scorron come fiumi.

E’ nipote di Cèila. Senza età, irradiata da rughe di saggezza, folate di tabacco e rum. Porta al collo amuleti degli spiriti “orisha”. E’ “santèra” e per ingannar gli eventi gestisce una “casa particulare”(pensione) nel quartiere di Marianao, dove ho trovato alloggio e gioia.

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La mattina mi sveglia con succo di cocco e canna, mentre un vecchio Bolero gracchia e tartaglia su ritagli di silenzio. Mi scruta strizzando gli occhi. “Ochossi” o “Ochun”. Dea della caccia e della foresta o divinità del fiume e della dolcezza. Sorride Cèila, su di me vola uno spirito buono. Stasera, andrò con Rafael dal “babalao”. Lui scioglierà il dilemma.

La Santéria o liturgia della Regla de Ocha portata dagli schiavi africani, fa parte della cultura cubana, così come lo sono il ballo e la musica. Tutti tengono d’occhio spiriti, riti e “babalao“, sacerdoti e registi del realismo magico santéro dove abitano nere e gaie deità legate a santi cattolici. “Sincretismo” per i teologi, “mestijazion” per gli etnologi. Divinità con due volti. Ma con un anima sola, quella del fedele.

Rafael mi prende per mano. Piccola e forte, dà sicurezza. Sotto un cielo inchiodato da stelle, saliamo verso l’Habana Vieja tra vicoli, musica, telenovelas e cani acciambellati. Seguiti dalle nostre ombre fin sulla porta del “babalao”. Qui non entreranno. Il resto è un’altra storia.

di Marta Forzan

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