Procedono lentamente, a testa bassa. Sono preoccupati. C’è la polizia sotto i portici di viale della Liberazione. Gli agenti sorvegliano tutta la zona attorno a Melchiorre Gioia. Hanno ricevuto l’ordine di non fare accampare nessuno stanotte. “Nessuno e specialmente loro” ci dice un poliziotto.
Non resta che tornare indietro e trovare un angolo in stazione. Se arrivi tardi rischi di non trovare un posto riparato. Dopo le 23 è già tutto pieno. Si sistemano sui gradini. Stendono il loro cartone. E quando verso le 5 arriva il primo treno, si alzano e se ne vanno. Si fanno chiamare Claudio, Paolo, Luca. Ma i loro nomi sono Chen, Yan, Su. Sono cinesi.
Siamo a Milano e scene come queste sono all’ordine del giorno per chi, come loro, è senzatetto.
E spesso senza documenti.
E senza documenti non si va da nessuna parte.
“E’ diffìcìle. E’ difficìle trovare lavoro” continua a ripetere Chen mettendo l’accento sull’ultima ì”. E’ in Italia dal 1999, guadagnava 13 centesimi a jeans per realizzare quell’effetto rovinato che tanto andava di moda. Lavorava fino a 22 ore di seguito perché “se guadagni soldi non senti fatica” ci dice. E ora che non ha più lavoro, vive per strada.
Senza documenti, poi, non è possibile rivolgersi ai dormitori del Comune di Milano; serve il permesso di soggiorno, o almeno la carta consolare o il passaporto.
Passiamo qualche ora con loro. Basta un Ni hao, ciao in cinese, l’unica parola che conosco nella loro lingua, per veder esplodere un sorriso nei loro volti. Qualcuno parla italiano e quelli che non capiscono ci interrompono di continuo per farsi tradurre tutto e non perdere nemmeno una parola.
Chi viene dal nord della Cina ci racconta di essere arrivato in Italia pagando il biglietto aereo più altri 2mila euro per le spese di agenzia. Chi viene dal sud, invece, dice di essersi affidato a intermediari che in maniera irregolare e chiedendo molto denaro, lo ha portato fino a qui. E lo ha lasciato al suo destino.
Yan, ad esempio, ha contratto 20mila euro di debiti per arrivare nel nostro paese. Ora, è a Milano da solo, non riesce a trovare un lavoro e non può tornare a casa. In Cina dovrebbe restituire i soldi.
Il signor Su, invece, è partito dal suo paese sei anni fa. Pensava di arrivare in America. E alla fine si è ritrovato in Italia. “Quando ho capito che non ero in America non gli ho dato tutti i soldi” dice arrabbiato. Ha però dovuto lasciare il suo passaporto agli organizzatori di quel viaggio della speranza.
Ora nemmeno lui può tornare indietro. Si è rivolto al Consolato cinese per chiedere la riemissione del suo documento. Ma la richiesta gli è stata rifiutata.
E così vive per strada. Esiliato per burocrazia dal suo paese. Clandestino nella terra che lo ospita.
Yan ha 35 anni e sogna di andare in Inghilterra. E’ scappato dalla Cina appena ventenne perché non poteva professare la sua religione. “Il mio corpo è qui – ci dice – Ma la mia anima è in Inghilterra”.
Dietro all’Arco della Pace c’è un gruppo di ragazzi. Stanno cucinando della pasta su un fornelletto. Ci avviciniamo e Davide Cologna, sinologo e sociologo dell’agenzie di ricerche Codici di Milano, traduce per noi. Scopriamo che oltre al lavoro, la loro prima preoccupazione è l’alloggio. Perché nell’ultimo anno, dopo i controlli delle forze dell’ordine, hanno chiuso i tapù. Questa è l’unica parola che sento scandire. Tapù continuano a ripetere.
Si tratta di piccoli appartamenti che offrivano posti letto a 8 euro, anche a persone non in regola. Erano concentrati in via Paolo Sarpi e nella zona di via Zuretti, vicino alla stazione Centrale. “Erano pur sempre posti che offrivano una sistemazione a un prezzo accessibile in una città come Milano dove tutti, dallo studente all’operaio appena trasferitosi, incontrano il problema dell’alloggio” dice Cologna.
Ora, cercano riparo dalla pioggia, dalla neve, dal freddo. E si difendono da altri stranieri senzatetto per non farsi rubare le scarpe o il sacco a pelo.
“Perché se davanti hai un lupo, dietro ti aspetta un leone” ci dice Chen
Foto di Giuliano Camarda
Pamela Foti
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