martedì 13 settembre 2011

LA GUERRA OVUNQUE

Le immagini e le parole di un fotogiornalista italiano, Ugo Lucio Borga, in Congo. Un resoconto drammatico di una delle tante guerre “dimenticate” del continente africano. In un paese che è ricchissimo in termini di risorse naturali ma dove sono in pochi a non conoscere fame e miseria.



Reportage pubblicato su Witness Journal 21
Per osservare i volti dei profughi di Kibati bisogna alzarsi prima del sole, quando il fumo pesante dei falò morenti avvolge la folla di disperati che ogni notte si accuccia intorno al bagliore di mille fuochi. Le prime vittime di una guerra mai spenta si incontrano qui: duecentocinquantamila anime con gli occhi sbarrati che lottano contro colera e fame ogni giorno. La pista di terra rossa, che partendo da Goma attraversa il campo dei rifugiati e prosegue verso gli inferni delle miniere d’oro e di coltan del nord, si allarga in corrispondenza dei resti di un check point abbandonato nella notte dall’esercito congolese in fuga. Il territorio controllato dalle milizie C.N.D.P. del generale rinnegato Laurent Nkunda inizia qui, ai piedi di un grande albero della gomma chinato verso il tramonto, e comprende le foreste del Massisi e la regione del Nord Kivu fino a Rutshuru, primo villaggio colonizzato dai belgi all’epoca di Leopoldo II e ora residenza dello stato maggiore del Congresso Nazionale per la difesa del popolo. Tra le baracche di questa cittadina della Repubblica Democratica del Congo, vuota di tutto quel che la guerra s’è portata via, si scrive l’ennesima pagina di un conflitto che odio etnico e interessi economici hanno trasformato nella più grande tragedia della storia dalla fine della seconda guerra mondiale.
“Un albero può morire. E restare in piedi. Può marcire. E restare in piedi. Ma anche un popolo può morire, e marcire, e restare in piedi, quando perde la propria sensibilità. La propria energia. Sono qui per informarvi, signori, che il popolo congolese è morto. Voi, siete morti. E state già marcendo.”
Nella sala dell'Istituto Superiore Pedagogico della cittadina di Rutshuru, Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, il silenzio è spettrale. Il generale rinnegato Laurent Nkunda, leader del movimento ribelle tutsi C.N.D.P., psicologo, pastore della chiesa avventista del settimo giorno, percorre la sala a grandi passi, evoca il passato, cita Ezechiele, infine sentenzia: gli hutu colpevoli di genocidio fino alla settima generazione. Molti dei presenti iniziano a contare con le dita quanti nonni sono trascorsi dal 1994. Troppo pochi.
Sono oltre duecento i cittadini di etnia hutu “invitati” alla prevista seduta di rieducazione ideologica. Ammassati, silenziosi, plaudenti al segnale convenuto. Chi non partecipa, sparisce insieme alla famiglia. Stupri, saccheggi, esecuzioni, mutilazioni: le testimonianze dei pochi sopravvissuti a queste barbarie sono irripetibili. “Il popolo Tutsi, come il popolo di Israele, ha il dovere di combattere per la propria sopravvivenza: con l’aiuto di Dio schiacceremo i nostri nemici, coloro che hanno alzato le mani sui nostri padri così come i politici corrotti di Kinshasa che vendono il nostro futuro ai comunisti cinesi”, conclude il generale. Sulla mimetica, una spilla: rebel for christ.

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Dicono poco, i numeri. Raccontano di un contingente di diciassettemila caschi blu che non sanno, o non vogliono, fare il loro dovere. Impantanati nel fango di una guerra combattuta da eserciti medioevali e gruppi ribelli armati di lance e machete, i blindati della Monuc- missione Onu Congo- sono un monumento all’incapacità occidentale di fermare questa strage. Cinque milioni e quattrocentomila morti testimoniano, una volta ancora, l’assoluta inadeguatezza di una istituzione che faticosamente sopravvive ai massacri che dovrebbe arrestare. Ma forse la verità è un’altra. All’indomani delle elezioni farsa del luglio 2006, finanziate da Europa e Stati uniti, che hanno visto il sanguinario presidente Kabila riconfermato alla guida di uno dei paesi più corrotti, e ricchi, del pianeta, gli accordi per lo sfruttamento delle miniere d’oro, diamanti e coltan del nord kivu sono stati rinegoziati in favore di un nuovo partner: la Cina. Contratti per dieci miliardi di dollari.
Secondo un deputato congolese, che vuole restare anonimo, “l’Occidente finanzia il signore della guerra Nkunda per ricattare il governo congolese, colpevole di non aver tutelato gli interessi delle multinazionali occidentali nel settore minerario”. I fatti sembrano confermarlo. Il comandante della Monuc nel nord Kivu, colonnello Chand Saroha, è stato rimosso nel luglio scorso, accusato di aver fornito vettovaglie, informazioni e munizioni ai miliziani del Generale Nkunda. Il Ruanda, paese alleato dell’Occidente, fornisce uomini e armi al C.N.D.P, ed è diventato uno dei principali esportatori di coltan del mondo. Eppure non ne possiede un grammo. L’Uganda, che fornisce armi e mezzi alle truppe di Nkunda, è diventato uno dei principali esportatori d’oro del mondo. Eppure, non ne possiede un grammo. Decine di multinazionali procedono, in un assordante silenzio mediatico, al saccheggio sistematico del paese più ricco del mondo in termini di risorse minerarie ed energetiche, all’ombra di un conflitto di cui nessuno vuole nemmeno sentire parlare.

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Il kalashnikov che Sebastien mi porge ha il calcio di legno rosso. In cambio, vuole il mio telefonino. Mi chiede se è possibile chiamare casa, a Bukavu, dalla foresta. Vorrebbe salutare sua mamma. Sebastien compirà tredici anni ad aprile. Presidia questo avamposto da molti mesi, non sa dire quanti. Il C.N.D.P. recluta giovani hutu, per inviarli in zone indifendibili. In caso di diserzione, la sua famiglia verrà sterminata. La foresta pluviale l’ha accolto insieme a una decina di ragazzi e ragazze. Una aspetta un bambino. Nascerà qui, dice, in questa capanna di rami intrecciati che fa ombra a una padella, due lanciarazzi a spalla e una scarpa da ginnastica sfondata. Non si riesce a capire chi sia al comando dell’accampamento: nessuno porta i gradi. E’ la ribellione. Oltre la collina, Kanyabaionga, Kayna, Kirumba, cittadine controllate da milizie xenofobe Mai Mai, Interawhe, Fardl.
Partiamo con tre fuoristrada, uno di scorta : le scritte international press e tv incollate sui finestrini, sull’agenda il nome di un portavoce dei Mai Mai che forse è vivo e forse no, da tirar fuori come un coniglio dal cappello se le cose si mettono male davvero. Scimmie e ippopotami si dividono le sponde di un corso d’acqua limacciosa che taglia la terra di nessuno: poi la pista si arrotola su se stessa, come un boa, e comincia a salire. Ai tonfi sordi dei mortai, migliaia di uccelli si alzano in volo, corrono verso il cielo in fiamme. Mai Mai e FARDC, fino a pochi giorni fa alleati contro le forze del C.N.D.P, combattono da quando, ieri, il sole si è tuffato nella giungla. Una ventina di Mai Mai gravemente feriti riposano all’ospedale di Kayna: dividono le brande con i malati terminali di colera, e la stessa cura : un po’ di zucchero, sciolto nel thé, e qualche benda di fortuna. Dietro la collina, silhouette di profughi in fuga e alberi della gomma si mescolano nel controluce della sera. Una donna ci corre incontro. Si copre i seni, nudi sotto i brandelli insanguinati di quel che resta di una camicia. Sul dorso, un bambino addormentato di pochi mesi: chiede cibo, acqua. Muni sai die. Aiuta mio figlio.

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Kayna è deserta. Le case spoglie, bruciate. Sul lato della strada, due cadaveri di cui non rimangono che resti fumanti. Paul ha gli occhi neri di cenere, il copertone di una bicicletta in mano e un berretto rosso da sci. Non gli resta altro. Fino alla notte scorsa, possedeva una baracca di assi, due letti, delle pentole e un frigorifero. Vendeva chapati di manioca e latte cagliato. “Ieri notte i militari del governo sono arrivati su un camion. Erano le dieci. Eravamo a letto. Hanno ucciso mio padre. Hanno preso tutte le nostre cose. Non mi rimane più niente.” Gli chiedo che ha intenzione di fare. Dalle tasche della giacca a vento spunta un pezzo di carta, ingiallito dal tempo. Sopra, scritto a matita, un numero a quattordici cifre, un nome, un indirizzo. “Porta questo a mio fratello, Muzungu. Vive in Italia, forse ancora a Mestre. Digli che la nostra casa, ora, è la foresta”.
All’indomani della spaccatura del C.N.D.P, e del presunto arresto del Generale Nkunda, avvenuto poche settimane fa, il nuovo flagello del Congo porta il nome di uno dei gruppi ribelli ugandesi più spietati della storia africana.
Attacchi indiscriminati contro la popolazione nella regione del Haut Huélé, stupri, esecuzioni di interi villaggi. MSF denuncia l’indifferenza della Monuc: immobile, nonostante la risoluzione del consiglio di sicurezza ONU 1856 del 22 dicembre scorso imponga ai caschi blu di intervenire per proteggere la popolazione da quello che ormai è diventato un massacro sistematico. Migliaia di ombrelli dai colori dell’arcobaleno si incrociano ai bordi delle piste di terra rossa. Vanno in ogni direzione, da nord a sud e viceversa. Non chiedono informazioni, non vogliono sapere più nulla. Maurice e la sua famiglia si sono seduti ai bordi della pista. Hanno deciso di non continuare a camminare. Succhiano qualche canna da zucchero, bevono l’acqua che ogni sera, alle 5 in punto, regala loro la pioggia. Fuggono da troppo tempo per illudersi ancora che esista un luogo in cui ricominciare a vivere in pace.
La guerra, nella Repubblica Democratica del Congo, è ovunque.
Fonte

Oltre 5 milioni e 400mila morti

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Diciassettemila caschi blu che non sanno, o non vogliono, fare il loro dovere.


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Una situazione di emergenza costante su più fronti che si protrae da tanti anni senza che nemmeno un centesimo delle ricche commesse derivanti dalle concessioni minerarie.



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Ugo Lucio Borga è un fotogiornalista aostano. Si occupa da molti anni di conflitti, in Africa e Medio oriente. I suoi reportage sono stati pubblicati, tra gli altri, da the Independent, The Observer, Die Zeit, La Vanguardia, Die Welt, Vanity Fair, La Stampa,Venerdì di Repubblica, Sky tg 24, Channel 4, Radio 24, Radio svizzera italiana. Nel 2009 ha fondato, insieme ai colleghi Giampaolo Musumeci e Matteo Fagotto, la Shabel reporter associati, che ha realizzato documentari per televisioni, radio e giornali di tutto il mondo.

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