Intervista a Francesco Giusti
Come nasce l’idea per un servizio, raccontaci come si è sviluppato nella tua testa il progetto Haiti?
Questa storia è cominciata a Milano il 14 aprile del 2004, io avevo bisogno di staccare, era morto un mio amico, dovevamo andare a Cuba e invece mi sono trovato ad Haiti.
A Port-au-Prince sono rimasto una prima volta tre settimane, poi tre mesi la seconda; Haiti è un paese pieno di contraddizioni, quando sei li hai l’impressione che paradiso e inferno si possano toccare, i morti per le strade, la povertà, la disperazione e i sorrisi, dimentichiamoci i nostri parametri, dimentichiamoci la ricerca di una logica come la possiamo intendere noi.
Questa è stata l’occasione contingente, ma il mio lavoro si compone anche di ricerca, documentazione, letture e raccolta di informazioni sui luoghi che si vorrebbero esplorare.
In questa prospettiva Haiti resta un luogo fuori dalle rotte, inoltre è una terra in cui si può respirare ancora una profonda spiritualità non convenzionale, quasi ancestrale, ad Haiti la popolazione è per l’80% cattolica, ma quasi tutti praticano anche il Voodoo, mischiando tradizioni e riti differenti in un sincretismo complesso, una cosa che mi ha sempre affascinato.
Parli di spiritualità, si potrebbe dire che anche le foto hanno una loro anima?
Le foto, le mie foto, è come se una volta create si modificassero da sole, anima non mi piace come termine, credo ci siano foto che emozionano e foto che non trasmettono quasi nulla al di là degli aspetti tecnici e formali, ma quando in un lavoro c’è verità, ricerca e coinvolgimento si sente.
Infatti alcune foto hanno il potere di trasformarsi in icone, una sorta di archetipo di un dato periodo storico, finendo così per contribuire anche alla formazione di determinate scelte politiche ma questo succedeva più negli anni '70 e '80, oggi è diverso.
Il problema è che la gente si è assuefatta ad un certo tipo di notizie e di immagini, anche forti, anche strazianti, questi scatti dovrebbero poter suscitare una sorta di rivolta morale nello ”spettatore”.
Invece, l’attuale abbuffata di stimoli visivi provoca al contrario un effetto paradosso, per proteggere la nostra vita si tende inconsciamente a negare la realtà, che so penso all’Irak, delle bombe e della morte, trattiamo questi fatti alla stregua di una fiction.
Cosa determina la riuscita o meno di una foto?
Oltre al soggetto, alla luce e alla fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto è anche ciò che il fotografo si vive nel mentre del proprio lavoro che determina in parte la sostanza della foto.
Io ho fatto un lungo lavoro ad esempio sui clandestini che vivono nelle fabbriche a Milano, è stata un esperienza di vita e questo fa si che tu ti metta in gioco che ti appassioni, esci dalla cronaca pura, la fotografia è prima di tutto un modo per conoscere e raccontare storie e persone.
Per questo faccio fotogiornalismo, la fotografia di moda ad esempio è per me troppo distaccata, asettica, costruita.
Credo che umanamente ti faccia crescere poco, la fotografia diventa nella mia prospettiva invece il racconto di un esperienza vissuta, le foto costruite mi emozionano meno, sono troppo artefatte, devi lavorare con tutto uno staff, tener conto di troppe variabili esterne e delle esigenze di troppe persone, che certo fanno il loro lavoro, e giustamente pretendono di svolgere il proprio ruolo.
Io piuttosto sono un cane sciolto, ho bisogno di andare da solo, fermarmi un’ora ad un incrocio, parlare, perdere tempo, a volte aspetti e non succede niente a volte aspetti e oltre alla luce per cui ti sei fermato si innesca anche il resto.
Cosa è la fotografia per te?
Il termine fotografia, etimologicamente, significa scrittura con la luce, io l'ho preso alla lettera, è quella scintilla che mi incastra su un luogo e mi obbliga a scattare finchè non sono contento, oppure incontro una persona cerco di fare delle foto e non funziona, allora dico: ”seguila Francesco, sali con lui sull’autobus e aspetta che la foto ti scelga”, toc toc sono la foto..ok ciao, allora scatto.
In un reportage forte come questo su Haiti, invece mi interessa sapere come ti vivi il momento in cui ti confronti con la visione della morte, se la fotografia può essere appunto un modo per scacciarla, esorcizzarla e quali sono le tue sensazioni in una situazione di quel tipo.
Ma davanti al cadavere di una persona con i suoi cari che gli piangono intorno, prima c’è l’uomo Francesco che si sente coinvolto, poi ti chiedi che senso può avere quella foto, cosa potresti fare in quella data situazione per partecipare, per alleviare il dolore, ma so che posso solo raccontare con gli strumenti del mio lavoro questa cosa, il più umilmente possibile.
Poi il mio carattere, la mia indole personale, il mio stile di lavoro e di vita mi spingono a cercare di essere in empatia con l’attimo che sto vivendo e con le persone che mi stanno intorno; ma in quello specifico momento, tragico, risulto distaccato, senza paura, senza dolore da trasmettere, ho il mio strumento, la macchina fotografica e voglio cercare di dare dignità a quella situazione, cerco di esserci.
Per questo lavoro con la macchina fotografica, con le parole mi sembra manchi sempre qualcosa, spero che le immagini parlino per me.
Come hai trovato i contatti che ti hanno permesso di entrare in questa realtà e come sei riuscito a far si che si fidassero di te.
Ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere due giornalisti radiofonici, li è la radio che fa informazione, la televisione è irrilevante come impatto, e loro sono stati il mio contatto, conoscevano i partigiani di Aristide e quindi mi hanno introdotto, poi io ho individuato la mia guida.
I partigiani si sono fidati perchè ero con le persone giuste, tu ti devi immaginare queste baraccopoli dove si concentrano appunto partigiani o ribelli a secondo della prospettiva, alcuni possono entrare altri no, dipende come sei, con chi sei, come ti comporti.
Poi c’è la tua dimensione di giornalista, se fai un lavoro obiettivo ti guadagni la reputazione e la possibilità di movimento sul campo.
A Port-au-Prince erano i bambini che ti accreditavano, una sorta di portinai degli inferi, bambini di otto\dieci anni, addetti al controllo del territorio, con la pistola nei pantaloncini, loro ti portano dal boss e poi lì sta a te giocartela bene, potresti non avere una seconda chance.
In questi ambienti devi essere freddo, ti devono vedere tranquillo, anche se uno spara in aria non devi lasciar trasparire emozioni, se sentono paura crei paura, se sentono incertezza allora ti mangiano.
.. e la tua guida...
Si, la mia guida; a Port ou Prince c’è questa lunga strada, la Gran Rue, dove ho lavorato quasi tre mesi, mi sembrava che potesse rappresentare la summa di tutto quello che succedeva nell’isola nel bene e nel male.
Se dovessi dare un titolo a questa esperienza sarebbe proprio la Gran Rue, sembra che lì si nasconda e si sveli tutto di Haiti, la vita e la morte, la gioia e il dolore nella crudezza della sua quotidianità.
Ma è anche il mio metodo, a me piace concentrarmi su un luogo fisico e attraverso la sua rappresentazione parlare anche di altro.
Il ragazzino, la mia guida, è in questo senso una delle anime di Haiti, su quella strada c’è di tutto, dal venditore all’assassino, dal poliziotto corrotto ai bimbi giocano a palla.
Lui era “il mio uomo ad Haiti”, beveva rum tutto il giorno, aveva 10 anni, era uno di questi personaggi, e l'ho scelto o meglio lui ha scelto me, aveva la stessa età di mia figlia e una vita completamente diversa, mi ricordava lei e anche per questo lo sentivo vicino, si, la stessa età di mia figlia e una vita così diversa.
A Port-au-Prince quando alzi lo sguardo dal porto verso l’alto vedi la collina di Petionville.
Lì sopra si concentrano tutti gli stranieri, i cooperanti, i benestanti, e coloro che si possono permettere un tenore di vita da occidentali.
Poi man mano che scendi verso il porto, scendi verso l’inferno.
Qualcuno dice che il grado di civiltà di una società è dato dal modo in cui viene gestita e smaltita la spazzatura, in questo Haiti non ha pari, più scendi più ti infili nella merda; poi dal calar del sole scompaiono tutti, ci sono solo le camionette con le bande armate, polizia, l’ Onu e basta...gli altri a casa.
Questi sono gli effetti della guerra civile, le persone non escono più, la diffidenza, la paura; devi imparare a cavartela da solo, non ti puoi fidare più di nessuno.
Questo livello di violenza non lo ho visto neppure in Yugoslavia, dove però lavoravo come operatore nei campi profughi; ci sono poi tornato come fotografo ma la violenza e l’impunità che ho visto ad Haiti non ha avuto pari.
Infine cosa consiglieresti a chi volesse intraprendere la strada del fotogiornalismo?
Fotografare ”la strada” è un esercizio che richiede concentrazione e libertà, Orwell in 1984 fa dire al suo personaggio Winston Smith “libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro”, ecco il fotogiornalismo è far vedere come è quello che è, due più due fa sempre quattro.
Ognuno deve saper trovare il suo modo personale di operare, che lo contraddistingua e che calzi come un abito comodo, io sono un fotografo non lo faccio, la vita è si fatta di tante cose e per fortuna in molte la fotografia non c’entra, però quando c’entra diventa vita.
Approfondimento su Haiti
Wikipedia
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