Nel centenario della nascita dell'artista l'Istituto Veneto ospita fino a marzo 2010 ottanta sue opere tra olii e lavori su carta
Uno sciamano della pittura, solitario ed essenziale. Una pittura di sottrazione sempre più accentuata, col passare degli anni, e nello stesso tempo più libera e sicura, in cui l'imprimitura della tela non è più supporto, ma colore e composizione, intrecciato sapientemente con quello che l'artista inscrive con rapidi tocchi di punta del pennello.
E' Zoran Music, che Venezia ricorda, nel centenario della nascita, con una mostra inaugurata ieri all'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti.
Non è una retrospettiva quella curata da Giovanna Dal Bon - con l'indispensabile collaborazione di Ida Barbarigo Cadorin, compagna d'arte e di vita di Music e il contributo della Regione - ma piuttosto un viaggio intimo soprattutto negli ultimi trent'anni di attività dell'artista. E i cavalletti su cui poggiano le tele, suggeriscono una dimensione quasi teatrale. Dall'atelier di Music provengono buona parte delle ottanta opere tra olii e lavori su carta esposti a Palazzo Franchetti - sede dell'Istituto Veneto - in alcuni casi per la prima volta, sino al 7 marzo 2010.
Un viaggio tematico, più che cronologico, che isola fasi e cicli pittorici dell'artista di origine slovena, con un'attenzione tesa soprattutto al rarefarsi progressivo della sua figurazione, fino alla serie dei Doppi Ritratti con Ida, che la conclude, suggellando il periodo più alto della pittura di Music, quella dei grandi ritratti e autoritratti degli anni Ottanta e Novanta, sospesi tra astrazione e figurazione. Emblema di essa è il grande «Doppio ritratto» di Zoran e Ida, ma anche le sue straordinarie declinazioni grafiche presenti nei disegni e nelle chine che ne fissano una dimensione di intima unione e insieme di isolamento esistenziale. Quella melanconia tipica dell'opera e della natura dello stesso Music che non a caso lo stesso Jean Clair - amico dell'artista e a lungo suo mèntore critico - ricordò qualche anno fa nella sua grande mostra parigina su questo tema al Grand Palais, con un ritratto dell'artista in poltrona. «Dalle sue origini slave egli sembra aver conservato qualcosa dell'antica fede bizantina nell'immagine», ha già detto Clair.
Anche le Venezie, che riprende a ritrarre negli anni Ottanta e a cui è dedicata una sezione della nostra - dalle Zattere alla Punta della Dogana (quasi una candida Sfinge allungata, in un'opera su carta in esposizione), al canale della Giudecca, alla stessa Basilica di San Marco - sono viste da dentro, senza alcuna concessione al gioco magico dello sfavillìo della luce sull'acqua, ma quasi nebbiose, avvolte da una bruma indistinta che ne è elemento compositivo, prima ancora che cifra stilistica, a volte circondate di segni criptici.
Più che un percorso, in questa mostra, vanno cercate le opere e la suggestione che esse ci suscitano, a cominciare dallo straordinario ritratto Il filosofo, che introduce la visita. Troveremo, certo, i Motivi dalmati delle sue origini, le straordinarie visualizzazioni a carboncino della figura del Viandante, gli autoritratti in grigio in disfacimento - della fine degli anni '90 - a cui è dedicata un'intera sala. E, naturalmente, i cadaveri affastellati del ciclo degli anni '70 Non siamo gli ultimi, ricordo indelebile della prigionìa a Dachau. Anche qui, un paesaggio interiore quello dei cadaveri di Music, non a caso abbinati a uno dei di quadri di motivo vegetale - degli stessi anni di Non siamo gli ultimi - in cui i rami degli alberi sono suggeriti da una complessa articolazione di linee, ma il clima cromatico tende sempre all'essenzialità.
Una mostra che conferma, comunque, la grandezza di questo artista e che spinge a chiedere che Venezia - Comune e Fondazione Musei Civici in testa - faccia il possibile perché questo patrimonio non vada disperso.
Enrico Tantucci
Nessun commento:
Posta un commento