lunedì 3 gennaio 2011

L’ARTE DEL CONTADINO FRANCESCO GIOMBARRESI

Francesco Giombarresi (Vittoria (Rg) 1930 - Comiso (Rg) 2007), di origine contadina, ha un'infanzia difficile, fugge dall'istituto a cui è stato affidato, non completa la scuola elementare ed è costretto ancora bambino alla dura vita del bracciante.

Colui a cui Picasso un giorno disse: "Io sono un grande pittore e dipingo grandi quadri, tu sei un grande pittore e dipingi quadri piccoli piccoli". Colui che "Strappò con rabbia i colori dagli incubi della umana esistenza".

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Dalla sua storia emerge un'infanzia di stenti e difficoltà: la fame, il lavoro duro, i maltrattamenti. Tentò spesso la fuga, ma senza riuscire mai a liberarsi da quella realtà di patimenti e tribolazioni. Poi si sposò - giovanissimo - e andò a vivere a Comiso, dove però non risolse i suoi problemi e rimase praticamente fino alla morte, avvenuta il 14 Febbraio 2007, all'età di 76 anni.

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Anche da uomo fatto e nonostante diversi problemi di salute, continuò a lavorare duramente nei campi alternandovi, però, la passione per l'arte e la pittura, sue nuove e più funzionali vie di fuga. Il suo approccio con il pennello era da autodidatta non avendo frequentato scuole o maestri se non fino alla seconda elementare. Cominciò a leggere e scrivere successivamente, lasciando anche testi scritti a memoria di quegli anni.

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Ma, se Francesco Giombarresi è uscito dall'anonimato come artista eclettico e geniale lo si deve soprattutto allo scrittore Leonardo Sciascia, che nel luglio del 1969 gli dedicò un articolo sul Corriere della Sera oggi riportato nel sito Ragusaonline.it

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"A prima vista, il suo caso sembra abbastanza chiaro e classificabile: - scrisse Sciascia - Francesco Giombarresi inventa macchine complicatissime, le disegna, le costruisce; lavora a un trattato di medicina; affolla di segni e di colori ogni pezzo di carta che si trova a portata della sua mano; crea un lessico adeguato alle cose che inventa, ai segni e ai colori di cui investe ogni carta; smodatamente ama farsi fotografare accanto alle sue macchine e alle sue pitture; dice sacrificata e tradita la sua vita, la sua umanità, il suo genio.

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Poi, man mano che si entra nel labirinto delle sue invenzioni, dei suoi scritti, dei suoi piccoli e innumerevoli dipinti, il caso appare sempre più oscuro e sempre più sfugge alla prima classificazione."

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Le sue dichiarazioni "disarticolate e indecifrabili" non appaiono tali a chi lo conosce bene e anche a chi, pur non conoscendolo e non sapendo nulla della sua vita "sacrificata, stancata, disavventurata, bastonata", voglia coglierle come parole di poesia che restano suggestivamente sospese e baluginanti, vedi, - fa notare Sciascia -"quel "Dio creduto per mia stessa Natura"; "le cose che si incontrano a contradire la vita dell'uomo"; l'opere finite "alla Catastrofe e al fuoco per sistemi di rabbia e di contradizione nella loro vita"; la vita che resta esemplare nelle Scritture al disopra quella che contradice l'uomo e la stessa."

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"La scrittura, le scritture, parole che frequentemente cadono nel discorso di Giombarresi, e la seconda sempre con un che di religioso e solenne. La scrittura come strumento, le scritture come risultato. La sua pittura altro non è che una scrittura, la più autentica e coerente che sia riuscito a inventare contro i sistemi della rabbia e della contraddizione che da ogni parte lo assediano: e ne risultano le scritture, quelle cose vere e durevoli che sono gli innumerevoli piccoli dipinti a tempera in cui racconta il mondo, la sua vita, la vita della gente che gli sta intorno stupida e feroce, grottesca, stravolta e talvolta in un triste e blasfemo carnevale.

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Di fronte alle maschere e figure umane che Giombarresi dipinge, è facile pensare a Ensor; e particolarmente a quella famosa acquaforte dell' Entrata di Gesù' a Bruxelles nel martedì grasso del 1898. E che Giombarresi si trovi in mezzo al carnevale dell'antica contea di Modica che il suo conterraneo Serafino Amabile Guastella ha stupendamente descritto in un libro pochissimo noto: atroce carnevale degli istinti, dei rancori, violento e famelico, segnato dalla miseria e dalla morte. Che ci si trovi in mezzo traumaticamente, da uomo sereno, puro nel cuore e nella mente, candidamente compreso della propria dignità e della dignità di ogni cosa vivente, che d'improvviso vede tutto stravolgersi nella frode e nella violenza."

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"Dirgli che il suo trattato di medicina, le sue esperienze, le macchine che inventa e le sostanze che distilla, la sete di conoscenza e la sua ansietà per le sofferenze umane, sono incluse nella sua pittura, che nella pittura ha tutto tradotto, sperimentato e risolto, non serve", spiega ancora Sciascia. "La mania coesiste con la poesia. Indifferentemente, Giombarresi può passare una notte a delirare di scienza o a dipingere con meravigliosa serenità e sicurezza. Perché è veramente pittore: e come sia arrivato ad avere una scienza così precisa ed armoniosa della pittura, un così indefettibile equilibrio è un mistero."

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Sentendosi incompreso sia dall'ambiente che dalla sua famiglia, spesso distrugge le sue opere.
I suoi scritti e le sue opere si trovano nella collezione del MACC di Caltagirone, in collezioni private siciliane e presso gli eredi.

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Bibl.: L. Sciascia, Giombarresi, “Corriere della sera”, 1 luglio 1969; N. Zago (a cura di), Francesco Giombarresi 1948-2004, Salarchi, Comiso 2004; E. di Stefano, Il doppio sogno di Giombarresi, in Id., Irregolari. Art Brut e Outsider Art in Sicilia, Kalós, Palermo 2008, pp. 106-120.
Fonte

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